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Diritto in Movimento. Verso un Nuovo Diritto Comune

 

di MICHAEL BLECHER

“Tutto è possibile, e niente posso cambiare” (N. Luhmann)

“Anche le impossibilità sono limitate” (R. Wiethölter)

“Non hai nessuna chance, allora usala (H. Achternbusch)

  1. I. Giustizia ‘Negativa’?

Già Niccolò Machiavelli aveva sottolineato la capacità performativa delle teorie:[1] lottare per la costruzione di teorie sociali idonee significa battersi per una pratica sociale idonea; costruire teorie politiche, economiche o giuridiche idonee significa battersi per una pratica politica, economica o giuridica idonea. Questa battaglia è “poietica non-sistemica”[2], cioè non risponde alla differenziazione funzionale, ma i suoi risultati strutturali devono essere capaci di ‘inserirsi’ nel contesto in questione e di affrontare i rispettivi problemi.

Condivido la visione di Antonio Negri[3] che la transizione verso un mondo al di la del modernismo si sia conclusa. Né il post-modernismo o iper-modernismo, né i concetti neo-kantiani (inter-soggettivi) sono capaci di captare il contemporaneo: un ordine sociale radicalmente frammentato alla continua ricerca del suo nuovo ‘comune’ oltre la distinzione classica tra sfera privata e pubblica; governamentalià come la sua forma manageriale psico-sociale, e le (nuove) forme di eccesso/ resistenza contro di essa.

La sfida maggiore del concetto emancipatore del diritto e della giustizia sociale viene oggi dalla teoria avanzata dei sistemi. Gunther Teubner riformula la teoria dei sistemi funzionalmente differenziati di Niklas Luhmann e l’interpreta come una rete di costellazioni tra regimi economici, politici, legali, scientifici, religiosi ecc. Il conflitto tra queste razionalità non può essere regolata né dalla politica né dal diritto sotto l’aspetto di un’unità integrativa. Il diritto appare come uno dei tanti meccanismi di risolvere questi conflitti, cioè si trova accanto i meccanismi che l’economia, la politica, la scienza, la religione ecc. installano autonomamente. Il diritto appare nel migliore dei casi come “civilizzatore di sistemi sociali” in quanto le formazioni giuridiche cercano di limitare le tendenze auto-distruttive delle varie razionalità sociali.[4] “I diritti umani in particolare non sono solamente dei diritti che proteggono gli individui giuridicamente contro il potere dello stato come di solito li vedono i giuristi. Hanno una funzione molto più ampia in quanto sono delle vere istituzioni sociali antitetiche che sono emerse di seguito a lunghi conflitti per ristringere l’inesorabile  espansione dei sotto-sistemi funzionali dal loro interno”[5] Per quanto riguarda la protezione degli individui,

“la giustizia dei diritti umani può essere formulata, tutt’al più, per via negativa. Essa mira all’eliminazione delle ingiustizie, non alla perfezione di un mondo giusto. Essa è un principio semplicemente antitetico (Gegenprinzip) alla violazione comunicativa di corpo e anima, dunque protesta contro le disumanità della comunicazione, senza che mai si possano positivamente elencare le condizioni per una comunicazione che renda finalmente giustizia all’ uomo. Qui non possono soccorrerci nemmeno i programmi emancipativi della modernità. Nessun ragguaglio ci viene offerto dai criteri della partecipazione democratica ai processi sociali da parte degli individui, giacché sono soltanto le persone quelle che partecipano, non i “corpi-coscienza”. In questa prospettiva, diventa semplicemente stupefacente la ingenuità di ogni “romanticismo della partecipazione”. Le procedure democratiche non rappresentano affatto un “indicatore” con cui misurare la giustizia di una società nei confronti degli uomini. E altrettanto poco “informative” risultano essere quelle teorie universalizzanti che procedono in maniera trascendentale a definire la generalizzabilità (cioè le proprietà a priori) dell’espressione dei bisogni. Che cosa hanno a che vedere queste astrazioni filosofiche con i singoli individui concreti? La stessa obiezione possiamo rivolgere, “mutatis mutandis”, alle teorie economiche che studiano il formarsi delle preferenze a partire dalle aggregazioni degli individui operate dal mercato. Solo le auto-osservazioni dei “corpi-coscienza” – dunque introspezione, sofferenza mentale e dolore fisico – possono stabilire quando la comunicazione ferisca i diritti dell’uomo. Solo se tali auto-osservazioni riescono a penetrare (benché in forme sempre travisate) all’interno della comunicazione, può sussistere una chance di arginare tale comunicazione a partire dai diritti dell’uomo. Decisivo allora diventa il “momento”, ossia la coincidenza (la simultaneità) di coscienza e comunicazione: il grido che esprime dolore. Di qui si spiega, per un verso, la vicinanza della giustizia alle forme spontanee di indignazione, disordine e protesta, e, per l’altro verso, la sua lontananza dai discorsi filosofici, politici e giuridici.”[6]

Teubner riconosce allora la ‘libertà’ degli umani e dei loro movimenti sociali di essere dei comunicatori/ attori indipendenti importanti lanciati contro le esternalizzazioni distruttive della “matrice comunicativa anonima”: essi ‘trasportano’ la sofferenza e il dolore individuali nel sistema di comunicazione attraverso l’espressione di “indignazione, disordine e protesta.” Questa libertà ricorda però il concetto marxiano dell’ ‘accumulazione originaria’: i lavoratori perdevano i loro legami feudali, ma anche i loro mezzi di produzione. Similmente, la teoria dei sistemi attribuisce oggi agli umani (o alle ‘menti incorporati’) un’esistenza al di fuori dalle costruzioni e costrizioni sociali. Sembra però che questi umani siano anche stati ‘liberati’ dalla rivendicazione e dalla promessa del soggetto borghese di creare e migliorare in continuazione il loro stesso divenire e avvenire sociale. Istituzioni anonime hanno sviluppato una loro propria dinamica comunicativa e un proprio ciclo riproduttivo e includono gli umani come ‘persone’ o ‘artefatti semantici’ “assorbendo le loro energie mentali e fisiche per la propria auto-preservazione.”[7] In cambio questi regimi o istituzioni sono condizionati dalle capacità vitali umane ma sono sempre capaci di (trans)formare quest’ultime rispetto ai bisogni istituzionali, con effetti gloriosi o disastrosi per gli umani.

Non voglio discutere qui se una tale liberazione/ espulsione degli umani dalla ‘loro’ società sia accettabile o non. Ha comunque ragione Teubner quando svela dei “contatti secreti tra teorie ufficialmente ostili tra loro”[8] che si occupano delle relazioni asimmetriche nella ‘matrice’. Oltre la teoria dei sistemi le teorie in questione sono: l’analisi di Michel Foucault su bio-potere, soggettivazione, e governamentalità; la ricerca di Judith Butler sul condizionamento sociale delle differenze gender; la critica dell’esclusione sociale da parte di Giorgio Agamben; il condizionamento della ‘moltitudine’ da parte del ‘impero’ nell’opera di Michael Hardt e Antonio Negri; la teoria dei discorsi chiusi di Jean-Francois Lyotard; la descrizione delle strutture ‘molari’ macchiniche di Gilles Deleuze e Felix Guattari; la teoria habermasiana dei sistemi che minacciano i mondi-vita comunicativi.[9] Questi concetti si occupano di un fenomeno psico-sociale che, nella tradizione di Karl Marx e della Scuola di Francoforte[10], fu chiamato ‘sussunzione reale degli umani alle strutture capitaliste anonime’, con i tratti particolari dell’ ‘alienazione’ (Entfremdung) e della ‘reificazione’ (Verdinglichung).[11] Mentre però questa tradizione aveva grande difficoltà di definire un individuo ‘autentico’ e una pratica sociale oltre la ‘dialettica negativa’[12], le teorie più recenti riconoscono la possibilità per il bios o la potentia degli esseri umani di provocare dei cambiamenti istituzionali. Esistono senz’altro grandi differenze tra queste teorie rispetto alla dimensione realizzabile di questa potenza e al ruolo che il diritto dovrebbe giocare in questo processo. Ma concordano sul fatto che, diventando ‘movimenti sociali’, le interazioni tra esseri umani singolari (‘moltitudini’) possono riemergere come forza costituente della loro storia sociale, a dispetto di tutte le previsioni.

La prima domanda è allora come si può al giorno d’oggi indirizzare o addirittura costringere quegli anonimi regimi sociali globali e le loro reti a riconoscere e riflettere il più possibile il loro ‘ambiente,’ cioè le condizioni degli altri sotto-sistemi sociali, degli umani  e degli ambienti naturali, in altre parole, di bios e zoe[13]. La seconda domanda lancia una sfida ancora maggiore: è ancora possibile sviluppare un concetto positivo della giustizia e del diritto capace di provocare dei cambiamenti istituzionali radicali oltre le forme piuttosto reattive della ‘mediazione’ tra razionalità incompatibili e della ”limitazione dei danni” che suggerisce Teubner?

  1. II. Condizioni Paradossali

Ho cercato di mostrare con il concetto di ‘Diritto in Movimento,’[14] che la realizzazione di un concetto positivo della giustizia non è solo possibile ma anche continuamente messo in atto. Basta prendere sul serio un filone di ricerca intorno alla teoria dei sistemi e arriviamo al riconoscimento di ‘condizioni di simmetria’ (paradossali) per ogni costruzione individuale e sociale e degli rispettivi effetti logici e normativi. Mi riferisco in particolare alla ricerca sulla ‘logica dei tre o più valori’ di Gotthard Günther e alla ricerca sulla creazione di (strati di) distinzioni o differenze che elaborano dei paradossi ‘sottostanti’, ricerca legata ai nomi di George Spencer Brown, Paul Watzlawick, Heinz von Förster, e altri.[15] Di conseguenza, possiamo trovarci catapultati fuori dalla teoria dei sistemi e dentro la teoria dell’agire sociale che riconosce la differenziazione funzionale sistemica come una forma contingente tra altri per realizzare il comune e scruta le varie teorie sociali rispetto al ruolo che possono giocare per la produzione di standard temporanee e le rispettive procedure della governance o governamentalità.

Per lungo tempo è stato rischioso di parlare o scrivere della ‘costituzione paradossale’ degli individui e delle sfere sociali. Paradossi vengono di solito o tenuti invisibili o rifiutati, nonostante siano inevitabilmente legati a qualsiasi uso di distinzioni, cioè a tutto quello che facciamo, communichiamo, costruiamo, incluso gli ‘episteme’. Wittgenstein ci aveva avvisato di parlare solamente delle cose delle quali possiamo parlare. Ma nel frattempo la sfera del comunicabile si è espansa e i confini sono stati ridefiniti in continuazione. Qualche anno fa abbiamo deciso che il nostro sistema solare ha 12 pianeti al posto di 9 e ci sono degli studi sulla forza produttiva o distruttiva dei buchi neri. Ritengo allora che valga anche la pena di parlare della forza costruttiva e de-costruttiva dei paradossi. Userò qualche esempio per descrivere il paradosso e i suoi effetti, ben consapevole che ci muoviamo ai limiti del comunicabile e dobbiamo perciò stare attenti di non cadere in una nuova forma di metafisica.[16]

Immaginiamo la funzione paradossale delle linee di confine: includono quello che escludono perché costringono l’incluso e l’escluso di essere connessi o ‘accoppiati’, come dicono i teorici sistemici. Qui ‘localizzano’ i loro programmi di ‘accoppiamento strutturale’ che stabiliscono come la ‘relazione’ tra sistemi e i loro ambienti deve essere trattata. Pensiamo per esempio al trattamento degli immigrati illegali: i nostri sistemi li ‘ab-bando-nano’ e li ‘margina-lizzano’ legalmente e politicamente per catturare le loro capacità vitali economicamente come lavoro a basso costo.[17] Ma la logica delle linee di confine significa molto di più: proprio sulla linea di confine spariscono anche i due lati della divisione e si crea una specie di ‘terra di nessuno’ che tiene in serbo la possibilità di altri valori, la potentia spinozista, che ci può portare anche alla dissoluzione della vecchia linea di confine e a delle costruzioni nuove.

Precisamente questo significa innamorarsi: quando due o più individui ‘dimenticano’ le loro divisioni e aprono il loro mondo a quello dell’altro prima di iniziare una ‘relazione’ strutturata che nel migliore dei casi sarà sempre capace di ricostruire quella originale energia costitutiva di abbandono. Chi vuole può ‘localizzare’ qui l’accesso al ‘divino’ prima che esso sia amministrato dalle distinzioni religiose di immanenza e trascendenza; o forse l’accesso a una quarta, quinta, o più dimensioni che la scienza prima o poi scoprirà. Conosciamo poi quei momenti di beatitudine quando gli oggetti del nostro pensiero ricevano, dopo tanto tempo di ricerca, d’improvviso un aggiustamento chiarificante cristallino.

Dunque, pare che la separazione tra sistemi e i loro ambienti, tra sfere organiche, mentali e sociali, tra bios e zoe, non sia così compatta come la teoria dei sistemi vuole farci credere. A questo ‘concatenamento alternativo’ arriviamo anche con quello che ho chiamato ‘domande eretiche’: La distinzione di legalità/ illegalità, è essa stessa legale o illegale? La distinzione tra bene e male, è essa stessa un bene o un male (la famosa domanda dell’ Uomo senza Qualità di Robert Musil)? Quale dei suoi valori vale quando una distinzione viene applicata a se stesso? Questo tipo di domanda ci fa scoprire l’accesso paradossale a tutte le possibili variazioni e qualità di costruzione che potrebbero essere usate per trasformare le distinzioni attuali sociali e personali. I paradossi non sono allora degli errori logici da sradicare per poter procedere. Sono un momento centrale, incondizionato e onnipresente della dinamica sociale: sostituiscono il soggetto trascendentale e ogni altro racconto fondatore, e ci lasciano scoprire le strutture personali e sociali come fenomeni contingenti, non necessarie, ma sempre possibile in un altro modo.[18]

Possiamo raggiungere quel ‘non-luogo’, quella ‘terra di nessuno’ anche in modo negativo: distinzioni possono collassare (in modo violento) se trascuriamo le ‘origini simmetriche’ (paradossali) di tutti i sistemi e ambienti che determinano la loro interconnessione programmatica. L’esempio classico è la distruzione dell’ambiente naturale che ha ripercussioni sul mondo individuale e sociale che abbiamo creato. La comprensione delle ‘linee di confine’ e del potenziale che tiene in serbo non porta allora solamente ad una comprensione dei meccanismi ‘logici’ delle distinzioni interdipendenti e delle chance e minaccie legati alla loro dissipazione; porta anche alla comprensione etica-normativa che tutti i requisiti per lo sviluppo delle sfere organiche, mentali e sociali devono essere presi in considerazione continuamente per evitare il più possibile tali effetti negativi.[19]

Vorrei riportare questa comprensione all’‘origine’ del diritto e al suo significato di ‘giustizia’. Se prendiamo questo ‘origine’ sul serio, l’organizzazione collettiva potrebbe essere ‘giusta’ solamente se provvedesse alla realizzazione di tutto (!) il potenziale di costruzione per tutti (!) i partecipanti di una sfera sociale. E’ il particolare compito del diritto di provvedere che questa giustizia incondizionata possa emergere il più possibile nelle distinzioni e costruzioni concrete che definiscono i parametri dell’ordine sociale. Da un lato, questa giustizia (tutte le possibilità per tutti i partecipanti) non può mai emergere completamente perché ogni ambito sociale concreto si realizza solamente attraverso delle creazioni ‘asimmetriche’ selezionate da quell’illimitato ‘spazio’ di possibilità. Dall’altra parte, ogni restrizione o esclusione prodotta da una entità sociale rimane legittima soltanto finché cerca di realizzare il massimo delle possibilità per il massimo delle entità singole e collettive coinvolte. Questa pretesa etica-normativa positiva(!) del diritto, di realizzarsi rispetto alle possibilità sempre eccedenti e di provvedere perciò a una corrispondente ‘giustizia globale’ sta (e continua stare) all’origine del diritto.

L’origine del diritto è allora la stessa potentia incondizionata e indeterminata che sta all’origine di ogni costruzione sociale, ius sive potentia. ‘Giustizia’ è il nome per questa potenza rispetto al ruolo sociale che il diritto dovrebbe svolgere. L’origine del diritto non è allora ‘la violenza’ come credevano Benjamin e altri prima e dopo di lui. La violenza è un fenomeno che viene, per così dire, ‘più tardi’ perché accompagna distinzioni ed esclusioni sociali che lo stesso diritto ha il compito di definire (come legali o illegali).[20]

Gli effetti logici e normativi di questa ‘ontologia paradossale’ non sono confinati al diritto e estendono la loro validità su tutte le sfere sociali specializzati e non-specializzati e sugli individui. Per quanto riguarda il lato logico, le possibilità fondamentalmente illimitate e il bisogno di selezione vengono tradotte nei termini di ‘incertezza’ e ‘contingenza’. Quest’ultime significano che le decisioni programmatiche possono sempre prendere una direzione diversa mentre la fede in programmi pre-determinati (path-dependency) può comportare delle consequenze inaspettate. Si cerca di ridurre l’incertezza attraverso la gestione di ‘rischi’ (risk management). Si sviluppa dei criteri per una gestione immunizzante dei rischi rispetto alle specifiche razionalità economiche, politiche, scientifiche, legali, ecc. che rendono il problema della loro ‘compatibilizzazione’ ancora più urgente. Tutto questo corrisponde ad un quadro della ‘giustizia’ chiamato da Luhmann “complessità sociale adeguata”.

Però c’è di più. Il riconoscimento dell’obbligo normativo trasversale di realizzare il massimo e potenzialmente tutte le possibilità richiede a tutte le sfere individuali e sociali di essere in continuazione ‘critiche’ verso le loro proprie distinzioni e decisioni e di seguire una continua auto-trasformazione e un continuo auto-miglioramento: nessuna decisione concreta può perdere mai la sua inadeguatezza e ingiustizia rispetto alle possibilità sempre eccedenti. L’immunizzazione attraverso la gestione del rischio può diventare ‘il rischio più alto di tutti’. Deve perciò essere accompagnata da un’ ‘immunizzazione contro l’immunizzazione’. Ciò significa che anche la ‘matrice anonima’ con la sua amministrazione funzionale (legale, economica, politica, scientifica, ecc.) è soggetto alla responsabilità politica-legale trasversale di aumentare e sostituire queste funzioni con delle alternative (legali, economiche, politiche, scientifiche, ecc.). Da un lato, queste funzioni chiave producono le matrici delle strutture sociali. Dall’altra parte però vengono continuamente liquefatte e trattate in modo diverso per poter compiere le richieste legate alla loro potenza che si presenta allora, rispetto all’organizzazione societaria generale, come il comune indeterminato.

Il comune è allora, in modo logico, la virtualità trasformativa, l’evento trasformativo o la sovversione di ogni organizzazione societaria attuale. In modo normativo, il comune è il plus-valore critico produttivo rispetto a tutte le distinzioni impiegate per l’organizzazione societaria. Rappresenta ‘l’altro generalizzato’ di ogni ordine sociale esistente e sta per il bisogno di realizzare tutte o almeno il massimo delle possibilità accessibili in un preciso momento storico per tutti o almeno il massimo dei corpi individuali e collettivi coinvolti. Ora possiamo ricostruire le visioni, speranze e promesse connesse al potenziale emancipatore di politica, economia, diritto, scienza, ecc. e alle loro combinazioni a rete come realizzazioni specifiche di questo senso comune, cioè degli aspetti logici e normativi trasversali del comune:

  • La realizzazione politica di una ‘vita in comune’ democratica, o di un ‘bene comune’, che richiede la trasformazione permanente delle forme esistenti (‘ineguali’) della partecipazione politica, della rappresentazione e dell’ auto-organizazzione sociale;[21]
  • La realizzazione economica del ‘benessere comune’, che richiede la correzione permanente dell’accesso ai beni ‘scarsi’ e la ri-definizione dell’accumulazione/ appropriazione/ proprietà rispetto alle forme esistenti della produzione di valore[22];
  • La realizzazione della ‘giustizia’ attraverso il diritto, che richiede l’adattamento permanente degli standard, organi decisionali (forum) e delle procedure per garantire lo sviluppo di sfere sociali autonome ed individuali e la loro reciprocità;[23]
  • La realizzazione scientifica della ‘verità’, che richiede la costruzione e l’adattamento permanenti della conoscenza applicabile;[24]
  • La realizzazione della ‘libertà’ umana, che richiede lo sviluppo e la trasformazione continui di differenze individuali in relazione al comune e contro l’allineamento sociale.[25]

Il diritto ha allora il ruolo e la responsabilità di realizzare quella richiesta normativa trasversale per un auto-sviluppo compatibilizzato. Per poterlo fare, il diritto accetta in principio le sfere autonome personali e sociali come realizzazioni attuali logiche e normative dello spazio illimitato di possibilità (ius sive potentia). Ma ricostruisce anche le loro ‘relazioni’ in un modo che permette di realizzare il massimo possibile per tutte. Per raggiungere un livello di maggiore giustizia, questa ricostruzione specifica dei ‘legami’ tra autonomie avviene sempre in modo temporaneo. Le vecchie dicotomie tra soggetti e istituzioni, tra privato e pubblico, tra contratto e organizzazione, e cosi via hanno ovviamente perso la loro capacità di definire tale governance da parte del diritto.

La distinzione dominante per le costruzioni giuridiche diventa allora ‘parzialità e imparzialità’. Ciò significa garantire delle sfere autonome e, simultaneamente, riservare meccanismi di controllo rispetto alla loro continua trasformazione verso la realizzazione della giustizia incondizionata. Per incoraggiare questa trasformazione continua, questo continuo ‘atto costituente’,  il diritto deve garantire una ‘cultura di conflitto’ che permette l’avvenire del conflitto politico creativo e conserva l’apertura di questo processo contro tutti i tentativi di false ‘pacificazioni’ o ‘sintesi’ uni- o multilaterali.

Ma quando la ‘corruzione’ dell’intero assetto di autonomie create e strutturate impedisce la ri-costituzione continua dei parametri di costruzione e perciò “cambia tutto per mantenerlo così com’è”[26] mantenendo i livelli di sfruttamento tra autonomie costanti o lasciandoli addirittura peggiorare, il diritto reagisce con ‘indignatio’ (Spinoza) sovversiva dando ragione e legittimazione a movimenti politici trasversali che si prendono cura del perduto cambiamento sostanziale verso una migliore realizzazione della potenza rispetto a quella delle autonomie esistenti. Qui si rivela l’affinità tra il diritto e i movimenti sociali in quanto anche loro esercitano pressione sui parametri normativi che limitano la trasformazione e determinano quello che dovrebbe far parte del sistema o non. Ma la relazione tra un tale ‘diritto in movimento’ e i movimenti sociali è ancora più profondo: movimenti sociali esprimono le loro richieste per la realizzazione di nuove possibilità anche in forma di ‘nuovi diritti’: il diritto all’auto-determinazione delle sfere autonome, il diritto di partecipare alla gestione dei problemi e delle soluzioni di rilevanza globale, il diritto ad una migrazione globale illimitata, il diritto a un salario sociale di base, l’accesso libero alla conoscenza creata collettivamente, la garanzia di un lavoro decente, e il diritto generale di disobbedire ad una qualsiasi limitazione ingiustificata di possibilità. In questo senso il diritto e i movimenti sociali traggono beneficio l’uno dall’altro: il diritto mobilizza i movimenti sociali per raggiungere il suo scopo di migliorare la auto-gestione concertata delle sfere autonome. Ma viene anche mobilizzato quando i movimenti sociali riescono a costituire dei nuovi parametri di sviluppo e di gestione sociale. I movimenti sociali sono, in altre parole, un laboratorio di sperimentazione per nuove e migliori forme di costruzione sociale, politico, economico, legale, ecc.

Il risultato di questo processo di trasformazione è oggi legato al concetto di governance e cioè alla creazione di costituzioni specifiche, temporanee, nazionali o trans-nazionali, inter-sistemici, settoriali, ecc. Finché l’assetto attuale è capace di produrre dei miglioramenti rispetto alla realizzazione attuale del potenziale di possibilità, il diritto sfrutterà le dinamiche auto-riproduttive e normative delle sfere autonome che devono essere coordinate.

  1. III. Governance del Nuovo Diritto Comune e Movimenti Sociali[27]

I movimenti sociali rivendicano la ricostruzione del ‘comune’ (‘reclaim the common’) oltre la settorializzazione funzionale o discorsiva delle società postmoderne. Una loro descrizione adeguata deve sottrarli al ruolo “embedded” in cui li confinano i maggiori concetti di organizzazione politica sociale. Analizzando questo passaggio all’interno del diritto, ci muoviamo dal concetto di ‘giustizia come complessità sociale adeguata’ di N. Luhmann[28] a quello che chiamo, in termini  deleuziani, ‘giustizia in continuo divenire’ o, appunto, ‘diritto in movimento’.

Il concetto chiave di questo passaggio è ancora la ‘contingenza’ dello sviluppo sociale e legale che si riferisce al fatto che le decisioni prese non sono né necessarie né determinate dal destino; sono sempre possibili in modo diverso e perciò non perdono mai la loro intrinseca inadeguatezza. Pongono invece la domanda normativa(!) di come l’organizzazione sociale e le sue funzioni politiche, economiche, legali, scientifiche, ecc. dovrebbero modificarsi per evitare effetti negativi e per migliorare la vita in comune, il benessere, la giustizia, la verità ecc. Condivido la visione di M. Foucault[29] che ‘liberare il possibile’ attraverso la continua consapevolezza della contingenza è il vero tratto dell’Illuminismo e la punta di lancia contro qualsiasi universalismo e fondamentalismo. Questo tratto rivela ‘l’altro’ in Kant, un’ontologia critica contro qualsiasi apologia idealista di una qualsiasi condizione della ragione; questa ‘critica della critica’ rivela, insieme al suo aspetto ‘(onto)logico’, una pressione ‘normativa’ permanente sulle asimmetrie inevitabili dell’ organizzazione sociale con i loro meccanismi di inclusione e esclusione, disciplina e controllo, rappresentazione politica e maggioranze, proprietà e scarsità, ecc, che cozzano contro il potenziale illimitato dello sviluppo dei attori individuali e sociali. ‘Liberare il possibile’ vuol dire ricostruire la potentia spinoziana come ‘contingenza’, che significa, appunto, letteralmente che ‘tutto il possibile è veramente possibile’, e ricostruire la ‘giustizia’ come continua ricerca del massimo possibile mutuo sviluppo in un contesto storico sociale specifico. Ius sive potentia si rivela allora come origine del diritto e il suo mandato emancipatore.[30]

Abbiamo visto che il ruolo paradossale del diritto si è sempre svolto tra l’affermazione di strutture sociali (‘governamentali’) e la battaglia continua contro qualsiasi restrizione della democrazia, del benessere comune e della giustizia legata a queste strutture. Il diritto adopera sia strategie di immunizzazione sia strategie contro l’immunizzazione. Questo paradosso è stato gestito attraverso l’introduzione di attori diversi, di livelli, procedure e luoghi nei quali si produce il diritto (istituzioni legislative, contratti, tribunali), ma anche attraverso la mobilitazione da parte dei movimenti sociali e le loro richieste di libertà, di autonomia e di nuovi diritti sociali. In altre parole: quando la popolazione assaliva la Bastiglia, quel simbolo delle forze distruttive dell’antico regime, esercitava diritto in movimento. Quando i manifestanti assalgono le gabbie del G8, esercitano diritto in movimento contro l’usurpazione dello spazio comune globale da parte di un gruppo di manager globali auto-dichiarati che non possono valersi di una legittimazione sufficiente basata su strutture adeguate di una governance globale.

E’ proprio il fenomeno della governance che riporta il diritto alla sua vera ‘origine’, la sua potentia di produzione normativa (‘Recht-Fertigung’): rivela che il diritto non è ancorato ad una ‘polis’ specifica o ad uno stato hobbesiano, e che è capace di seguire forme diverse del comune fin quando non sia compiuta la sua specifica condizione e rivendicazione normativa, cioè la creazione di una sempre maggiore giustizia trasversale che tenga conto delle possibilità sempre eccedenti. Da questo punto di vista, i nostri sistemi giuridici complessi (legislativi, giurisprudenziali, arbitrativi, consultativi) sono nient’altro che una forma altamente specializzata di governance con differenti livelli decisionali, gerarchici e orizzontali. Per esempio, in tribunale, le possibilità normative che eccedono le posizioni delle parti sono idealmente rappresentate dal ruolo professionale di un giudice (o arbitro) legittimato, proprio dall’accesso ‘imparziale’ a quei ‘valori terzi’ eccedenti, a creare gli standard per l’attribuzione (‘parziale’) di ‘diritti’ (richieste legittime) a una o all’altra parte. Vista in questo modo, governance non è allora l’estensione dello ‘stato di eccezione’ (G. Agamben), ma piuttosto il contrario: una reazione al fallimento delle pretese universalistiche di mercati, stati e diritti e una risposta alla frammentazione e all’ibridazione della produzione normativa globale. Questi fenomeni hanno portato alla riapparizione e al management di altri valori possibili per la (ri-)costruzione normativa che le forme legali ‘classiche’ del management concertativo di collisioni del diritto nazionale, internazionale e sopranazionale non sono più in grado di coprire in modo adeguato.  E’ allora piuttosto questa mancanza o perdita dell’incisività del diritto ‘classico’ che crea una ‘de-legalizzazione’[31], e non il concetto di governance che cerca di confrontare i fallimenti menzionati attraverso l’istallazione di altre/ nuove forme di ‘legalizzazione’ o produzione del diritto sotto condizioni di incertezza e di possibilità eccedenti.

Non c’è dubbio che la messa in crisi di strutture esistenti possa agevolare delle forze che portano piuttosto ad un abbassamento dei livelli raggiunti di giustizia, benessere, protezione sociale e partecipazione; basta pensare all’economicizzazione neo-liberale delle funzioni statali. “La potenza […] si dà tanto nella forma ‘negativa’ della corruzione, quanto nella forma ‘positiva’ dell’imperium comune. In termini spinozisti, si tratta di due gradazioni diverse della stessa potenza. Nel primo caso, si tratta di una potenza che si esprime ai minimi livelli, nel secondo caso esprime la sua definizione originale. Il punto è che il conflitto tra queste due gradazioni della potenza avviene sullo stesso piano, dipende cioè dalle modalità politiche con le quali il diritto declina costantemente la propria potenza.”[32] Perciò, per diventare ‘più critico’ piuttosto che ‘meno critico’ (Günter Frankenberg), l’assetto di base delle procedure della governance non può dipendere né da singoli concetti che nascondono modelli economici, politici, legali, selettivi, né da certi modelli formali – ‘modello legislativo’ (creazione di norme da parte del corpo politico o della sua temporanea rappresentanza; incluso il nuovo ‘municipalismo’), ‘modello tribunale’ (applicazione di norme legislativi/ creazione di casistica normativa), ‘modello comitologia,’ (creazione di standard normativi tra esperti), ‘modello normazione tecnica’ (creazione di norme tecniche da parte di enti privati di varie categorie), ‘modello arbitrato’ (creazione di norme da un forum scelto da privati), ecc.[33].

Le procedure della governance in quanto creazione del diritto comune devono sviluppare per ogni specifico contesto (o ‘regime’) un livello adeguato di tutela delle ‘parti’ e di deliberazione (im-)parziale che punta su più giustizia, benessere comune, e reciprocità. Perciò devono (auto-) sviluppare:

  • Regole per la creazione dei governance ‘forum’ e per l’accesso ad essi (il famigerato ‘accesso alla giustizia’);
  • Regole per il management procedurale dei ‘casi’;
    • Regole per la raccolta di materiale (l’accessibile conoscenza teorica e pratica rispetto al contesto sociale in questione; studi di fattibilità/ sostenibilità) da usare come base per una decisione sostenibile sugli standard di collisione;
    • Regole per l’attribuzione di responsabilità (‘prognostica’) rispetto alle (in-)aspettate conseguenze della decisione e sui criteri per una sua revisione/ attualizzazione.

Le procedure di governance che puntano alla creazione di ‘reciprocità’ o di ‘mutuo rispetto e cura’ tra discorsi, razionalità, istituzioni, sistemi, divergenti implicano l’obbligo legale di aprire le stesse radicalmente a tutte le proposte per la costruzione sociale e la creazione di standard, incluse   quelle che propongono delle alternative agli standard esistenti; come, per esempio, una visione diversa dei diritti di proprietà per ‘beni comuni inalienabili’[34]; o proposte che legano i privilegi della personalità giuridica e della responsabilità limitata delle imprese alla loro responsabilità sociale[35] (J. Dine); o un ruolo critico dei diritti fondamentali (della Carta di Nizza) contro delle ragioni sistemiche[36]. ‘Aprirsi ad altre possibilità’ implica certamente anche l’obbligo di introdurre i movimenti sociali attivi nel rispettivo contesto sociale nella procedura decisionale pena la perdita della sua legittimità .[37] Significa anche introdurre meccanismi adeguati di revisione della decisione e l’attribuzione di responsabilità per la loro messa in atto.[38]

Comunque, il processo di deliberazione (normazione, argomentazione, decisione) nelle procedure della governance non può mai perdere la sua ambivalenza e insufficienza, e qui si marca la differenza con i concetti della ‘società civile’. I movimenti sociali si muovono in parallelo al paradosso del diritto. Possono benissimo partecipare alle procedure che aspirano ad una complessità adeguata e producono la giustificazione per i cambiamenti ritenuti necessari. Ma i movimenti si rifiutano di essere solo degli altri attori (‘stakeholder’) con la ‘concessione’ (!?!) di partecipare al gioco della governance. Non vogliono occuparsi solo di ‘razionalità’ e di ‘interessi’ in collisione tra loro. I movimenti sociali e il diritto in movimento puntano e devono puntare ad un ‘atto costituzionale’ permanente che è necessario per de- e ri-costruire i parametri della vita in comune, della giustizia, del benessere, della verità, ecc. Ciò include la potenziale re-invenzione e il reframing[39] dell’intero assetto organizzativo e decisionale, di nuove istituzioni del comune e delle rispettive procedure di governance che trasformeranno ovviamente anche i movimenti stessi.

Anche questo paradosso dei movimenti, l’oscillazione tra partecipazione e ‘esodo,’ può essere elaborato diversificando tempi, attori, ruoli, ecc. Significa che una parte del movimento si sottometterà alle procedure della governance, scendendo a compromessi, mentre altri reagiranno alle restrizioni connesse inevitabilmente a queste procedure, rilanciando il movimento altrove e proponendo procedure diverse.

Allora non c’è dubbio che, nelle condizioni della governance (post-)postmoderna e metropolitana, i movimenti raggiungono il massimo del loro impatto pratico e della loro auto-riproduzione in quanto diversificano i loro ruoli, mantengono un’apertura strutturale e agiscono in forma di rete contro qualsiasi centralizzazione o usurpazione stile soviet. Questo significa anche che l’attività dei movimenti non può essere ristretta né all’ “assedio”[40] né al ‘preferirei di no’ di Bartleby[41]. Il nuovo spirito del capitalismo[42] assorbirà inevitabilmente una parte dei loro programmi e dei loro attivisti. Ma non importa, perché i movimenti si muovono secondo la massima: “Vogliono solo il nostro bene, ma non glielo daremo.”[43]

La difficoltà in tutto ciò sta piuttosto in quello che Agamben ha chiamato, con riferimento a Foucault, ‘il modello dominante della soggettivazione’. Sono, per così dire, i fili del burattino che sviluppiamo a partire dall’ infanzia mentre interagiamo socialmente. La ‘governamentalità’ descritta da Foucault (e, con riferimento specifico all’aspetto gender, da Judith Butler)[44], porta con sé un modello generalizzato (‘dispositivo’) di auto-governo personale e sociale che non si riesce ad abbandonare facilmente, pur essendo ‘l’alternativa vivente che cresce nell’impero’[45]. Questo regime di soggettivazione produce oggi il ‘sé imprenditoriale,’ ‘l’imprenditore del mondo-vita’[46] che corrisponde alla economizzazione delle società post-moderne. Indipendenza, competizione, capacità comunicative, vitalità, rinnovamento personale e flessibilità sono le sue ben note caratteristiche. Il fatto che la trasformazione permanente fa parte di questo modello psico-sociale rende particolarmente difficile ai movimenti essere ‘diversamente diversi’, anche perché abbiamo una scienza della governance, ma non una scienza del ‘non voler essere governati’.

Comunque, il monito di Agamben vale in primo luogo per gli stessi ambienti della governance. L’economizzazione del sistema mondo-vita e il regime del sé imprenditoriale creano asimmetrie e pregiudizi di base sui quali si fonda la comunità globale degli esperti deliberanti e delle ONG maggiori che orbitano intorno loro che hanno delle idee molto precise su ciò che “merita di essere accettato” (Habermas). Appare allora in effetti un nuovo tipo di status o di struttura di classe con una visione altamente selettiva dello sviluppo sociale che richiama la tradizionale omogeneità culturale dei giudici che hanno garantito la coerenza del sistema delle sentenze (‘precedents’) nella common law. Qui sta allora un’altra ragione per i movimenti sociali per muoversi in ambedue direzioni: partecipare alle procedure della governance e sfidare i loro risultati.

Ciò conferma la nostra riformulazione del concetto di giustizia: da un lato, si tratta della definizione procedurale temporanea di sostenibili standard comuni che risolvono in modo migliore collisioni o conflitti tra gli ‘interessi’ coinvolti; dall’altra parte, l’immediata pressione verso la ricerca di soluzioni migliori, potenzialmente verso la sostituzione dell’intero assetto dell’attuale organizzazione della vita in comune, perché si dà per scontato che gli standard stabiliti siano ingiusti. Una tale giustizia ‘sovversiva’[47] si trova allora piuttosto nell’accelerazione della trasformazione del processo normativo e non tanto nei risultati temporanei. Questi risultati svilupperanno già una loro ‘forza di gravità sociale’ giuridica-politica (‘governamentale’) che li fa durare per qualche tempo, soprattutto quando implicano una sorta di identificazione individuale e collettiva che spesso viene rafforzata dai produttori mediali della ‘pubblica opinione’. Perciò i risultati non hanno bisogno di essere ‘immunizzati’ contro una critica immediata. La richiesta di ‘verificarli’[48] è essa stessa parte delle battaglie politico-legali in quanto non esiste qualcosa come una ‘verifica oggettiva’ (neo-trascendentale?) fuori da queste stesse battaglie. [49] Cosi la giustizia si trova alla fine piuttosto nel conflitto continuo per la realizzazione di soluzioni reciproche o comuni sostenibili[50]: seditio sive jus. Tale giustizia o de- e ricostruzione permanente verso il meglio non deve ancora ‘avvenire’, come intendeva Derrida, ma è in continuo divenire, in continua attuazione, e i movimenti sociali sono una forza determinante in questo stesso processo.

  1. IV. L’immanenza dell’ (auto-) sovvertimento costruttivo

A questo punto vorrei aggiungere una nota particolare ad un testo recente di G. Teubner nel quale lui sostiene che le decostruzioni di Derrida richiedono l’introduzione di una distinzione ‘filosofica’ o ‘laica’ tra immanenza e trascendenza.[51] L’effetto riflessivo di apertura o di eccedenza provocato dalle decostruzioni di Derrida è trasversale e non si ferma néanche ai sottosistemi funzionali alle quali G. Teubner si riferisce:[52] La (auto-) decostruzione o il (auto-) sovvertimento non risparmiano alcuna delle distinzioni applicate esistenti – incluse quelle tra gli stessi sistemi (funzionali) e il loro ambiente, tra sistemi coscienti e sistemi sociali, e, appunto, tra immanenza e trascendenza – e porta generalmente a “formule indeterminate contro la pratica corrente”[53], che possono essere chiamate ‘amicizia’ o ‘bene comune’ in campo politico, ‘dono’ o ‘benessere comune’ in campo economico, ‘giustizia’ nel campo del diritto, ‘perdono’ nel campo del morale, ecc. Queste eccedenti ‘promesse’ descrittive e normative, ‘simmetriche’, richiedono sempre di essere realizzate e definite attraverso una nuova forma di costruzione o concatenazione individuale e sociale (sistemica o di altro tipo) che, rispetto all’eccedenza di possibilità, sarà comunque di nuovo asimmetrica, limitata e controversa e ricreerà la forza (auto-) critica, (auto-) de-costruttiva nella luce di quelle stesse ‘promesse’.

L’esperienza di questa strana procedura della produzione del reale porta con sé un radicale senso di contingenza verso ambedue ‘i lati’ coinvolti – verso le inevitabili promesse eccedenti reali e le inevitabili costruzioni della rete concreta del reale. Il massimo che possiamo guadagnare da questo senso di contingenza è allora un nuovo atteggiamento verso questa stessa produzione del reale immanente, un atteggiamento paradossale del combattere senza attaccarsi troppo, soprattutto il combattere senza voler uccidere l’avversario, consapevoli della propria ‘mostruosità’ o della propria limitatezza e imperfezione. Solo cosi possiamo evitare che quelle indeterminate ‘promesse’ o ‘formule di simmetria’ diventino il fulcro di un nuovo giudizio trascendentale(!?!) che qualcuno pretende di ‘rappresentare’(!) con mostruosa forza maggiore e una nuova guillotine. Questo vale anche in campo religioso come ha ben mostrato B. Spinoza:[54] Non c’è nessun sacrificio finale da compiere per raggiungere la meta promessa. Il fatto che lo stesso mondo reale sia sempre una realizzazione di quella potenza eccedente, di quelle ‘promesse’, fa si che tutte le distinzioni del reale, pur quelle ‘negative’ anche se ‘a livello minore’[55], portino con sé ‘il divino’. Vuol dire in primo luogo: non si può sbagliare! Questo è un messaggio scomodo e sovversivo che fa saltare tutte le gerarchie e le dottrine, non solo quelle religiose. Poi però, quel senso di contingenza porta con sé un ‘mandato’ radicalmente democratico di realizzare in continuazione la potenza e le sue promesse contro le form(ul)e stabilite e i loro meccanismi (corrotti) di esclusione, sopraffazione e di privilegi non legittimati dalla stessa costruzione democratica; cioè siamo responsabili di creare, decostruire e migliorare il reale in tutti i campi attraverso conflitto e cooperazione per mantenere la massima potenzialità di sviluppo (‘divino’) per tutti gli individui, il comune sociale e il mondo intero. Cosi giustizia, amicizia, dono, bene comune, perdono, verità, libertà, ecc. sono in continuo ‘divenire’ (Deleuze).

Qui subentrano ovviamente i movimenti sociali. Le loro battaglie hanno un ruolo principale nella de- e ri-costruzione produttiva del reale. Se vogliono sviluppare la diversità e potenziarsi rispetto a quel mondo sempre mal costruito, devono tener presente e confrontarsi con il loro stesso inevitabile coinvolgimento (corruttivo) nelle strutture dell’potere attuale[56]e con la loro potenziale mostruosità; devono accettare una loro continua auto-trasformazione e mantenere aperte le loro forme di aggregazione.[57]

Non c’è via di scampo da questo inarrestabile processo della negoziazione sugli standard e sulla loro trasformazione, da questo eternamente insufficiente mix di conflitto e cooperazione, che si tiene in vita perché deve cercare di realizzare le promesse eccedenti senza poter mai compiere questo incarico fino in fondo a causa dell’inevitabile selettività e dell’asimmetria decisionale. Dobbiamo allora opporci al rifiorire di nuove ‘trascendenze’ o di teologie politiche pronte di giocarsi le libertà guadagnate con la metamorfosi verso ed oltre il post-moderno.[58] Ciò non vuol certo dire di negare il bisogno di rappresentazioni o immaginazioni simboliche con le quali le nuove reti psico-sociali “si rendono leggibili”[59]. Ma “il profondo legame erotico del soggetto con la legge” non dipende affatto dalla mancanza di una figura autorevole (paternalista!) che la legge avrebbe lasciato aperta e che invece sarebbe necessaria per l’orientamento dei soggetti.[60] Le strutture realizzate ricevono la loro autorevolezza ed accettazione dalla rivendicazione di aver realizzato l’aspetto etico-normativo della potentia, cioè dal fatto che queste strutture si dimostrano ‘giust(ificat)e’ in quanto massima realizzazione temporanea delle possibilità personali e sociali. Dobbiamo allora insistere sulla liberazione politica di queste energìe personali e sociali della potentia contro qualsiasi falsa pacificazione. Sono i confronti e le trattative politiche permanenti che occupano il posto di quella presunta manque all’interno della legge. Non importa se questo fenomeno prenda oggi la forma della ‘proceduralizzazione’ o della ‘governance’. La ‘redenzione annunciata’ sta comunque in questa immanenza della costruzione del reale, in questa resistenza produttiva della riflessione contro la forma che ri-produce la riflessione che riproduce forma e porta con sé un’azione trasversale genuinamente e irriducibilmente politica[61], in ogni caso “poietica-non-sistemica”[62]

  1. V. La crisi dell’attuale: E’ morta la governance – viva la governance?

“Per stabilizzare i prezzi, […] lo Stato doveva applicare quelli che circolavano prima dell’eruzione del panico commerciale; doveva scontare i cambiali che nel frattempo non rappresentavano altro che insolvenze estere. Con altre parole, il bene economico dell’intera società, che il governo rappresenta, doveva compensare le perdite dei capitalisti privati. Questa forma del comunismo, nel quale la reciprocità resta completamente unilaterale, appare molto attraente ai capitalisti europei.”

Traduzione dell’editoriale ‘La crisi finanziaria in Europa’ di Karl Marx sul New York Daily Tribune No. 5202 del 22 dicembre 1857.

“Nel sistema economico, (…) sono le banche a gestire i paradossi. Soltanto loro hanno la possibilità di vendere i propri debiti facendo guadagni. Solo loro hanno il problema di dover simultaneamente stimolare l’economia di risparmiare e di spendere denaro. La loro funzione si basa sul fatto elementare che le transazioni economiche operano con pagamenti e che ogni pagamento riproduce, rispetto al valore del denaro impegnato, la capacità di pagare e l’incapacità di pagare. I problemi temporali legati a questo meccanismo vengono compensati dal commercio con promesse di pagamenti, cioè dalla promessa delle banche di ripagare i depositi ricevuti e dalla promessa dei debitori di ripagare i loro mutui. Le banche traggono profitto da questa differenza e qui sta il loro auto-mantenimento. Questo meccanismo produce allora un aumento della quantità di denaro e cioè un secondo paradosso che sta nel fatto che la quantità di denaro nel sistema economico viene trattata sia come somma costante sia come somma variabile. (…) Le banche provvedono alla chiusura del sistema economico, producono l’autopoiesi dell’economia, anche nel settore dei mercati finanziari, che non è più controllabile dall’esterno (soltanto irritabile e, naturalmente, distruttibile).“

Niklas Luhmann, Das Recht der Gesellschaft (Suhrkamp: Frankfurt 1993) pp. 334-5[63]

La presente ‘crisi dell’attuale’ ha passato la soglia della predominante attention economy a partire dall’autunno 2008. Sono invece anni che la critica del capitalismo neo-liberale ha attaccato le asimmetrie dannose provocato dalla totalizzazione dei parametri economici che hanno, a partire dagli anni 70, ‘ordinato’ il mondo-vita delle capacità cognitive e relazionali ‘a mo’ d’impresa’.[64] Riecheggia anche la voce di chi, di fronte al crollo del Muro di Berlino e alla successiva mobilitazione neo-liberista nei paesi dell’est, aveva previsto che la caduta di ‘un lato’ della distinzione determinante del secondo post-guerra (est./.ovest, capitalismo./.’comunismo’) avrebbe portato in tempi non lontani al crollo dell’’altro lato’.[65] Intanto aveva portato alla fine di un’altra distinzione, quella tra capitale produttivo e capitale finanziario, e ha portato alla finanziarizzazione del capitale come nuovo modo della sua accumulazione:

“un’accumulazione che coniuga il plusvalore derivato dalla produzione di denaro a mezzo denaro con uno sfruttamento senza precedenti della vita delle persone: riduzione dei salari, aumento del precariato, lavoro gratuito, riduzione verticale delle aspettative di vita, esclusione e povertà. La crisi impone il reinvestimento di questo plusvalore biofinanziario a sostegno della ripresa. Siamo in altre parole alla presenza di una nuova forma di capitalismo, che non esclude la presenza di altri modi di produzione, ma di certo segna il passaggio ad un’epoca che sarebbe riduttivo definire «postmoderna». Nulla di quell’allegro libertinaggio ci resta oggi. Volenti o nolenti, dovremo fare a meno anche delle teorie economiche neoclassiche, come di quelle neo-sovraniste, entrambe inadeguate per raccogliere questa sfida impervia.”[66]

Cosa sarà della governance rispetto a questa sfida? Siccome ci troviamo ovviamente in una ‘crisi dell’attuale’, cioè in una crisi che attacca le categorie dominanti di politica, economia, diritto, ecc., è plausibile che in questo momento almeno una variante della governance sia finita.[67] Si tratta generalmente di quella variante che aveva come principale funzione strategica proprio l’immunizzazione del regime contro una crisi di questo genere, in quanto ‘risolveva’ le ‘collisioni’ tra i vari ordinamenti societari con l’inclusione della la ‘società civile’creandoci così una maggiore legittimazione.[68] Con la mossa neo-sovranista protettiva degli stati nazione di trasformare il debito dei privati in debito comune e di tenere in piedi delle imprese chiave del sistema, questo scenario della governance ha per ora lasciato lo spazio e lo show al big government che cerca di ‘cambiare tutto perché nulla cambi’.

L’incognita nella quale ci troviamo deriva dal sospetto largamente condiviso[69] che, oltre il suo ‘gettito ingiusto’ a favore delle stesse ‘moderne belve’ sociali[70], non sia affatto sicuro che l’enorme mossa compensatoria riesca evitare l’approfondirsi della crisi. C’è da aspettarsi che un’enorme massa di persone (non solo dell’Africa) verrà gettata in una situazione esistenziale disastrosa. Questo potrebbe creare un’Onda’ (!) di proteste che metterebbe, come minimo, i governi e l’assetto istituzionale in difficoltà sostanziali costringendoli di introdurre, oltre delle riforme del sistema monetario, finanziario ed imprenditoriale globale, dei nuovi parametri per la vita in comune. La larghezza della trasformazione dipenderà senz’altro dalla potenza della pressione moltitudinaria, che aveva, tra l’altro, anche fatto nascere il new deal. L’intera gamma è immaginabile:

a)     La semplice conferma – dolorosa, ma liscia – di quella nuova forma estrema del capitalismo immateriale;

b)    La conferma del capitalismo immateriale in cambio di nuove e portentose riforme istituzionali,[71] inclusa la creazione di garanzie di base per una esistenza civile (parola chiave: il basic income [72]) e per il lavoro (parola chiave: flex-security[73], ed oltre);

c)     Una ridefinizione ancora più fondamentale delle funzioni societarie (economiche, politiche, legali, ecc.) con nuovi parametri comuni per l’accumulazione dei beni, i modi di appropriazione e di proprietà, la personalità legale e la responsabilità limitata delle forme associative imprenditoriali, ecc.

Non vorrei speculare su altri scenari, tipo un rifiorire/ estendersi dei scenari di guerra (civile).[74] Probabilmente nessuno di questi scenari sarà fattibile o sostenibile in forma ‘pura’. Intanto una semplice conferma del tipo a) è impossibile, proprio per un problema strutturale del capitalismo immateriale contemporaneo che ci riporta al suo ’origine paradossale’(non: dialettica!) descritto sopra:[75] Per poter continuare, la forma attuale del capitalismo ha bisogno di sovvertirsi/ superarsi (come ogni altra forma dell’attuale).[76] Però, rispetto a periodi precedenti, questa tensione logica-normativa si fa oggi più stringente che mai. Siccome l’accumulazione deriva direttamente da uno sfruttamento delle capacità vitali comunicativi dei corpi individuali e sociali, in somma: dalla vita in comune in quanto tale, il capitalismo deve, da un lato, tenere questo mondo-vita sotto controllo; ma dall’altra parte, deve tener sotto controllo se stesso e far si che i suoi modi sfrenati di sfruttamento non portino ad un indebolimento o addirittura la distruzione di queste qualità vitali e sociali dalle quali lui appunto dipende. In altre parole, il capitalismo contemporaneo si trova in una specifica forma di ‘doppio legame’ (double bind) o situazione schizzata:[77] Ha bisogno di regole per poter mantenere la sua base vitale sociale e deve sempre sovvertire queste regole per raggiungere livelli maggiori di accumulazione. Il modo per eccellenza per rendere un tale paradosso produttivo è la creazione di (mille) piani di strutture e di ‘spazi spontanei’ che li sovvertono e creano nuove strutture senza mettere in pericolo l’intero assetto strutturale. Sono guai allora se una crisi dell’attuale infetta una vasta gamma di questi molti livelli. Il sistema può allora essere costretto di cambiare la sua ‘filosofia di base’ per poter continuare. Qui sta la chance della crisi contemporanea.

Detto questo, anche il ritorno allo stato regolatore rimarrà un’illusione che qualcuno certamente rimpiangerà: Primo, dovuto al meccanismo appena descritto, c’è una potente frizione tra la velocità d’accumulazione e la costruzione normativa del mondo-vita. La regolamentazione tende di venire sempre ‘troppo tardi’; basta pensare all’invenzione delle tante forme di crediti/ debiti cartolarizzati negli ultimi 20 anni che hanno attribuito all’attuale crisi.[78] Ci vogliono allora dei modi di governance diversi che si inseriscono nella stessa dinamica dell’accumulazione economica. Secondo, nonostante gli effetti domino che abbiamo visto negli ultimi tempi – dal credit crunch alla minaccia dell’intero sistema economico e politico istituzionale – sembra improbabile che salti tutto il complesso intreccio dei (mille) piani della governamentalità attuale per sfociare in una sorta di semplice governabilità a mo’ di causa ed effetto: “Quando appare una nuova formazione, con nuove regole e serie, non avviene mai tutta subito, con una singola frase o un singolo atto di creazione, ma emerge come una serie di ‘blocchi costruttivi’, con lacune, tracce e riattivazioni di elementi precedenti che sopravvivono sotto le regole nuove.”[79] Ritengo allora che sia probabile che cambi la cultura comune ‘sottostante’, e questo cambiamento porterà ovviamente anche a degli aggiustamenti della struttura a molti livelli. Terzo, l’esperienza con lo stato regolatore a cavallo tra gli anni 70 e 80 ha ben mostrato che le politiche degli interventi diretti in un sistema (‘auto-poietico’) complesso portano a quello che G. Teubner ha chiamato ‘il trilemma regolatore’[80]: provocano proprio loro dei nuovi malfunzionamenti nei settori da curare.

La trasformazione consisterà allora probabilmente in un mix dei scenari sopra elencati. Questo significherebbe, però, che, con le istituzioni attuali sotto pressione, si rinnovi la chance per un uso della governance comune come sviluppato nel terzo paragrafo di questo volume[81]. Si tratterebbe allora di un disegno della governance che non funziona più come “agente principale del consenso rispetto alle ingiustizie prodotte”[82], ma come atto costituzionale democratico al di la delle forme attuali (statali e non) che cerca di confrontare i fallimenti delle pretese universalistiche di mercati e banche/ imprese, stati e diritti e delle loro ri-combinazioni con l’istallazione di altre/ nuove forme di normazione sociale e produzione di diritto (‘giuridificazione’). Basta pensare che si stiano discutendo e attuando oggi dei modelli organizzativi che solo poco tempo fa sembravano un assoluto tabù, come la nazionalizzazione di banche e imprese. Allora: non abbiamo nessuna chance: usiamola! Passo ad una rassegna di qualche tendenza e contro-tendenza (soprattutto in campo giuridico europeo):

-                Solo in breve, il (ormai offuscato) ‘effetto Obama’ ed oltre: è possibile che le forze economiche e politiche che hanno sofferto dell’ordine unilaterale (o selettivamente multilaterale) imposto dal precedente governo della ex-unica superpotenza, si mettano d’accordo su un nuovo tipo di ‘Magna Carta’[83], almeno su un nuovo Bretton Woods (ma anche su guerre da fare). A Davos 2009 erano d’accordo che il mercato non poteva essere lasciato a se stesso, senza regole (l’avevano naturalmente sempre detto!?!); e la crescente importanza data all’incontro del ‘G20’ di aprile 2009 segnava il ritorno alla multilateralità. C’è poi già chi prevede che un entente cordiale(?) tra USA, UE e Cina costituirà il nuovo tridente nell’olimpo dell’Impero.[84] Non facciamoci comunque ingannare dal fatto che gli stati nazione riappaiono in veste di cavalieri bianchi. Non si tornerà indietro dalla ‘costellazione post-nazionale’ (Habermas), e vale ancora il giudizio che, “per mantenere se stesso, l’Impero deve creare una forma reticolare di potere che non isoli un unico centro di comando e che non escluda da sé nessun territorio esterno e nessuna forza produttiva.”[85] La fragilità dell’ordine interno degli stati nazionali che si mostra a livello giornaliero e la registrabile inquietudine delle moltitudini che gli ‘alitano sul collo’ non sono delle spinte trascurabili verso una comune ricerca al riparo;

-                Per quanto riguarda la sostanza delle misure compensatrici dei governi, non siamo certo ad un cambio di rotta rispetto al sistema post-neo-liberista, nonostante qualche ‘nazionalizzazione’ che non significa affatto già un tale cambiamento. E’ interessante vedere come i governi europei si attengono ancora alla giurisprudenza rigidamente neo-liberista della Corte Europea nel campo delle così dette golden shares, cioè delle partecipazioni statali, che danno all’ente pubblico in questione dei diritti speciali di intervento nell’impresa, soprattutto nel caso di una vendita a terzi indesiderati. Per non toccare la patata bollente si è fatto fin’ora piuttosto ricorso a delle partecipazioni deboli, specie ad azioni senza diritto di voto, rinunciando cosi ad una forma di co-gestione. Per seguire la sua politica (per vari motivi anche apprezzabile) di togliere i confini materiali ed immateriali inter-europei, la Corte permette un tale intervento soltanto se si tratta di imprese di interesse pubblico o economico strategico, se il diritto d’intervento non è discriminatorio e se l’intervento è idoneo per soddisfare i summenzionati interessi strategici.[86] L’economia semi-statale che fino alla metà degli anni ‘80 rappresentava una notevole fetta delle economie nazionali, era stata smantellata sotto la pressione della Comunità Europea in quanto quest’ultima la definiva un ostacolo per il Mercato Interno rispetto alla libertà del movimento dei capitali e del diritto allo stabilimento. Poi aveva mostrato, oltre un dilagante clientelismo e corruzione, quella incapacità di realizzare degli interventi politici strategici idonei nel sistema dell’economia che ormai girava, appunto, secondo le strutture diverse dell’accumulazione immateriale finanziaria. Però, queste partecipazioni facevano anche parte del welfare nazionale, cioè erano state usate per proteggere industrie chiave con questo intento, come nel caso della Volkswagen in Germania: il progetto iniziale della rispettiva legge (!), che risale al 1959, fu di spargere ‘proprietà comune in mano agli operai’ attraverso la distribuzione di rispettivi azioni. La Legge riservava inizialmente allo stato federale e al Land di Bassa Sassonia delle quote consistenti per poter proteggere questo progetto. Naturalmente fu anche un progetto di ‘pacificazione’ del mondo di lavoro che culminava poi negli anni ’70 nella legislazione (e giurisprudenza affermativa) sulla co-gestione operaia nel consiglio di supervisione delle grandi imprese tedesche. Nella Volkswagen si tratta ormai di una lotta tra giganti – con la Porsche che è diventato il maggior azionista e vuole vedere cadere lo stato speciale dell’impresa – mentre la co-gestione operaia ha mostrato di essere pienamente integrata nella logica manageriali delle rispettive imprese. Ma nonostante ciò, la protezione di questi progetti gioca ancora un ruolo forte (nel ambito tedesco, ma non solo); sarà puramente simbolico, ma proprio per questo nondimeno da trascurare. L’imprenditoria e i suoi rappresentanti politici giuridici aspettano da anni che anche la co-gestione operaia venga mietuta dalla falce della Corte Europea e cerca di lanciare rispettivi casi. Con la crisi in atto, la giurisdizione della Corte sul ruolo delle enti comuni dovrebbe essere superato dal bisogno di sviluppare un nuovo livello di sostenibilità incluse altre forme di co-gestione/ governance comune.[87]

-                Nel frattempo, anche gran parte delle successive privatizzazioni è stata discreditata in quanto le pretese comuni ereditate dall’economia pubblica si sono perse per strada. Promesse come strepitosi vantaggi economici per i consumatori dovuto ad un aumento di concorrenza si sono troppo spesso mostrati una chimera. Il controllo e la supervisione da parte dei famosi authorities pubblici ha solo parzialmente potuto compensare la tendenziale sottrazione di funzioni sociali chiave (sanità pubblica, trasporti, energia, acqua, case, formazione, comunicazione, pensioni) alla gestione comune e ai rispettivi criteri non commerciali. Anzi, la gestione manageriale degli enti pubblici ha cominciato di trattare anche i servizi rimasti a loro secondo il modello di scarsità, cioè come ‘rendita’. Ora il salvataggio di banche e imprese sembra piuttosto provocare una crisi di legittimazione nonostante la prevenzione di ulteriori crolli sia stata legittimata con la protezione dei risparmi comuni: l’investimento massiccio di denaro comune a sostegno delle ‘belve’ potrebbe portare alla richiesta di una co-gestione (pubblica o in forme nuove) dei servizi di base a livello locale e alla creazione di una forma di basic income popolare. Similmente, l’enorme spesa unilaterale potrebbe provocare una tax payers revolt (oltre i progetti leghisti) in quanto proprio l’uso comune degli introiti comuni è stata storicamente uno dei capisaldi della vita in comune: “no taxation without representation”. Saranno in fine probabilmente in tanti a non sentirsi rappresentata dalle mosse compensatorie dei governi – soprattutto se le compensazioni vengono ancora usate per pagare dei cospicui bonus ai manager delle stesse dite in difficoltà.

-                In questo contesto è da considerare un altro ‘attacco’ della Corte sferrato poco prima della piena eruzione della crisi al progetto dell’integrazione sociale europea.[88] La disgiunzione classica, nell’UE, tra gestione economica (livello comunitario) e gestione sociale (stati membri) si è potuto basare per anni sulla mancanza di una notevole concorrenza dei salari nei vecchi paesi membri. Si ha cosi potuto lasciare la gestione dei salari all’autonomia tariffaria delle organizzazioni sindacali di categoria, spesso sopportato da legislazioni a livello regionale o nazionale per evitare anche la concorrenza salariale interna. Questo ‘equilibrio’ è andato in frantumi, primo, con l’aumento del lavoro ‘immateriale’ precario non organizzato e sottopagato e il rispettivo indebolimento delle forze sindacali, e secondo, con l’entrata dei nuovi paesi membri dell’Europa centrale che sono fatti nascere senza un’adeguata rete nazionale di politiche sociali spingendo gran parte delle loro popolazioni alla migrazione economica. Di conseguenza, la Corte Europea ha dichiarata illegale una legge del Land della Bassa Sassonia a sostegno delle tariffe accordate a livello locale per i contratti pubblici in quanto sarebbe anche applicabile a operai mandato da altri paesi membri e violerebbe perciò la libertà dei servizi dell’Articolo 49 Trattato CE e la Direttiva 96/71/CE sull’impiego di operai in un altro stato membro. [89] La decisione ‘risolve’ la collisione tra l’ordine europeo del mercato e l’ordine nazionale del sociale a favore di una supremazia del primo senza alcun riguardo degli equilibri sociali nazionali che stanno da sempre dietro quelle politiche di ‘co-gestione’ o dell’autonomia degli players sociali nei vecchi paesi membri; e senza riguardo del fatto che fin’ora la Comunità non ha praticamente delle competenze in campo[90].

La Corte prosegue qui una linea che aveva già lanciato con altre due sentenze che erano sempre legate alla nuova diversità socio-economica nell’UE dopo il suo allargamento verso est. I membri della ‘vecchia’ Europa hanno cercato di difendere il loro livello di salari e di protezione sociale contro un dumping sociale da parte della ‘nuova’ Europa. La beffa è tripla: Primo, il dumping sociale sta avvenendo da tempo proprio negli vecchi stati membri di seguito alla dilagante precarizzazione. Secondo, la famigerata ‘approssimazione’ dei paesi dell’est da parte dell’UE è avvenuta praticamente solo per le politiche del mercato interno, senza la creazione di garanzie sociali di base. Terzo, sono soprattutto le imprese della vecchia Europa a sfruttare i livelli salariali bassi dei paesi nuovi. Basta registrare un’affiliazione nel paese dell’est o cooptare un’impresa locale e poi mandare i suoi operai nel paese vecchio in questione. Le sentenze nei due casi chiave, Viking e Laval[91], riconfermano un’asimmetria a favore della commercializzazione sopranazionale contro le costituzioni sociali dei (vecchi) paesi membri. L’ambiguità sta nel fatto che la Corte, nonostante i suoi verdetti finali, riconosca ampiamente il diritto allo sciopero e altri componenti di una rudimentale politica sociale europea. Si direbbe, “è già qualcosa” visto gli attacchi al diritto di sciopero in patria. Ma questa ‘conquista’ rimane assai vacuo rispetto allo ‘sottosviluppo’ dell’Unione in campo (che include l’apprezzabile insistenza della Corte contro la discriminazione di ogni tipo e a sostegno del ruolo della Carta di Nizza[92]); sembra di non poter bilanciare il ‘danno’ che sta nel fatto che la Corte ha lanciato la libertà di stabilimento del Articolo 43 Trattato CE contro l’auto-gestione normativa delle associazioni sociali/ sindacali. La Corte applica qui un’importante equazione tra ‘barriere creato dallo stato’ e qualsiasi produzione di norme nei settori autonomi. Da un lato, questa equazione significa un ampio riconoscimento delle ‘costituzioni societarie’ e un tendenziale superamento della distinzione tra pubblico e privato. Dall’altra parte, pare che la Corte voglia riordinare gli stati sociali nazionali (nel caso Laval proprio quello svedese) non accettandone certi tratti che ritiene (ormai?) insufficienti per essere una legittima barriera contro la libertà di stabilimento.

Allora, quale design potrebbe la Corte aver in mente? Pare quasi che voglia dare ora, di seguito alle sue famose spinte a favore di un’economia sopranazionale[93], una spinta verso un’ ordine sopranazionale sociale europeo (minimale?) che alla fine riesca ‘dare una regola’ anche ai nuovi stati membri sulla questione sociale trascurata. Allora questa ‘perdita’ per gli stati vecchi sarebbe dolorosa, ma solamente momentanea? Visto il tendenziale smantellamento dello stato sociale nei paesi vecchi si potrebbe in effetti scommettere su una sua riorganizzazione a livello europeo. Le spinte politiche di privatizzazione/ commercializzazione a livello nazionale hanno, fin’ora lasciato temere il peggio. Allora i movimenti per la politica sociale europea potrebbero trovare un ambiguo sostegno da parte della Corte? Per ora, un cittadino di uno stato membro vecchio preferirebbe probabilmente, secondo un vecchio detto tedesco, “il passero (nazionale) nella mano alla colomba (europea) sul tetto”, soprattutto se quest’ultima è ancora assai magra. Con la crisi dell’attuale che ha toccato subito in modo pesante parecchi paesi dell’est, un rilancio della governance sociale potrebbe invece partire dalla difesa di un’autonomia sindacale nazionale, comunque solamente se rinnovata dall’inclusione e dalla acclamazione del precariato, verso una europeizzazione non solo minimale delle politiche sociali, incluso un reddito sociale europeo di base.[94]

Alla fine di questa sezione torna ancora in mente quella tesi che lo smantellamento dei paesi europei orientali avrebbe avuto come effetto lo smantellamento dei regimi occidentali.[95] In fatti, l’Anschluss-Vertrag[96] per i nuovi stati membri era stato preparato da gran parte della troupe degli esperti europei ed americani con un tale fervore neo-liberista da potersi solo vergognare nei paesi vecchi. Di una ristrutturazione sostenibile di precedenti garanzie sociali non se ne parlava. Di tutto questo ‘a casa’ ne prendevano atto in pochi sognando, non la California, ma la Deutschmark-Zone (néanche l’ECU/ Euro-Zone) sui Balcani. Invece l’impatto del ‘rientro’ (!) delle politiche economiche radicali (dalla flat tax al social dumping) non ha potuto passare inosservato.

-                Vengo finalmente a le parasite (Michel Serres)[97]: è quello che è sempre seduto a tavola con noi senza che noi facessimo caso; ma lui sa sfruttare abilmente e velocemente tutte le nostre mosse strutturali economiche, politiche e giuridiche a suo favore.[98] Questo terzo escluso che è sempre stato in qualche modo presente nel dibattito precedente è: l’impresa. Anche quando si parla di banche e istituti finanziari si parla di imprese, non ultimo perché sono a gran parte organizzate come società per azioni, con la differenza che registrano un alto grado di regolamentazione – che evidentemente non ha potuto evitare la sua crisi profonda. Al momento della stesura di queste righe, anche le prime imprese si erano messe in fila per ottenere il loro piatto di carità dalla cucina comune per i poveri. Si apre cosi un altro campo di battaglia nella lotta per un’organizzazione sostenibile del comune.[99]

L’impresa – a tutti gli effetti uno dei protagonisti della crisi in quanto punta di lancio o ‘macchina di guerra’ (Deleuze-Guattari) dell’ azione commerciale finanziaria globale – segna allora il primo campo delle ‘costituzioni societarie’ (private) messo in difficoltà. Con la corporate governance e i codici di condotta auto-regolatori (le banche hanno degli codici specifici), le imprese (multinazionali) si erano create una rete di regolamenti interni.[100] Non si poteva però dare per scontato che, con questa forma di auto-organizzazione normativa, le imprese non avrebbero più prodotto ed esternalizzato degli effetti negativi legati al loro sistema dei profitti (e/ o della rendita!). Si supponeva che soprattutto la pressione dall’esterno – da ONGs, sindacati, media, organizzazioni internazionali, e enti regolatori statali – avrebbe potuto portare queste istituzioni private ad una regolamentazione e applicazione di forme di auto-controllo, magari supportato dall’istallazione di organizzazioni (globali) di monitoraggio. In Europa si erano creati degli authorities per la supervisione dei settori finanziari – ”toothless tigers” agli occhi degli insider della City di Londra.[101] La crisi ha mostrato che il famigerato public-private policy mix non è funzionato o non è bastato, almeno per interi settori, perché accetta l’asimmetria di fondo che privilegia la gestione (‘corrotta’) a mo’ di mercato, diritti proprietari e rispettivi profitti/ rendite. Anche la co-gestione operaia, lì dove esiste, non ha fatto nessuna differenza in quanto assorbita dalla stessa logica. Comunque non a caso la prima reazione dopo l’eruzione della crisi è stato il ri-lancio di ‘nuovi’ regolamenti,[102] tanti dei quali si discutono da anni: l’organizzazione di un controllo all’interno dell’azienda da parte di supervisori indipendenti, la riduzione dei salari manageriali e il loro legame con l’andamento dell’impresa su decisione dell’assemblea generale; l’irrigidimento della responsabilità dei manager, forme più trasparenti della contabilità, ecc. Qualcuno[103] chiede ora una de-corporation (che decostruirebbe l’in-corporation) e scommette sulla ‘società per accomandita’ come nuovo modello base per le attività imprenditoriali. (Consiste da un illimitato numero di soci con responsabilità limitata e senza diritto di gestione e dei soci manageriali con piena responsabilità privata).

Credo sia difficile di ridurre le possibilità imprenditoriali ad una sola forma di organizzazione. Ricordiamoci: è assai improbabile che la complessità delle forme sparisca da un giorno all’altro: Certo, si cercherà di scommettere su forme ‘più piccoli’ di cooperazione/ cooperative e sul livello locale, anche nel settore bancario. Ma, la forma organizzativa non è da solo una garanzia per la salute della banca/ impresa come hanno mostrato i fallimenti/ salvataggi di parecchie banche cooperative (popolari) e casse di risparmio negli ultimi anni. Dipende dalla veracità degli strumenti usati e dalla ‘filosofia di base’ che si traduce in responsabilità di gestione. Si deve allora per forza intervenire a livello di contro-regolamento, per sovvertire le regole intrinseche sfrenate del profitto (e della rendita) esercitate sulla pelle di individui e di altri ambienti. Potrebbe portare ad una limitazione della ‘cartolarizzazione’ e dei debiti girati e ad altri strumenti.[104]

Ma non basterà, come ho accennato all’inizio di questo capitolo. Oltre a pensarci a nuovi regolamenti (che richiedono, sostengono e controllano degli auto-regolamenti) e rendono l’abuso della forma impresa e della sua contabilità più difficile[105], si dovrà cambiare l’intera ‘cultura’ sulla quale si basa, e questa crisi, che si presenta come epocale, sembra una buona occasione per farlo. Possiamo dire che, con la richiesta di trovare i loro debiti compensati da un’azione finanziaria comune,  le stesse imprese (bancarie) mostrano di condividere la visione di operare su concessione comune, riconoscono, in altre parole, la loro dipendenza dal mondo-vita. Quasi ci implorano di sviluppare una nuova forma del comune che possono poi sfruttare per la loro riproduzione. Allora basta prendere questa voglia di ‘comunismo del capitale’[106] sul serio: Il nuovo principio sarebbe di intendere l’attività aziendale organizzata, simile a quella di altre autonomie societarie[107], come una concessione comune che fornisce la base per la sua costituzione. Non penso affatto alla reintroduzione ottocentesca di un’amministrazione economica che da letteralmente una ‘licenza’; non sarebbe né fattibile, né auspicabile visti i summenzionati problemi strutturali diversi e la nota corruzione corporativa di questo modello.[108] Si tratta invece del distacco dell’impresa dai suoi ‘soci proprietari’ e il suo riconoscimento come ‘istituzione comune’. Cerco di descrivere le linee generali di un tale progetto che vedo, per ora, dispiegarsi su due livelli, la costituzione dell’impresa e l’impresa comune:

-                 Con la costituzione di un’impresa si crea una separata entità legale che ha dei diritti e obblighi diversi rispetto alle persone coinvolte (di solito: fondatori, soci, impiegati, creditori, debitori). Dopo la sua fondazione, la società non trae la sua legittimità solo dai fondatori e gli altri stakeholders, ma dall’intera comunità interessata nel suo andamento commerciale. I suoi poteri sono allora una concessione sia da parte delle persone coinvolte, sia da parte della comunità che coinvolge per ottenere i suoi obbiettivi.[109] Già su questo livello, l’organizzazione e la condotta aziendali rompono con la distinzione classica tra diritto pubblico e privato. L’azienda viene giudicato, in primo luogo, rispetto alle sue funzioni e la sua responsabilità sociali in riferimento all’impatto economico, politico e sociale delle sue attività a livello locale, regionale, nazionale, ed internazionale.[110]

La costituzione dell’impresa prescrive che i privilegi della personalità legale e, per le corporations, della responsibilità limitata saranno comunemente accettate e sostenute soltanto fin’ché queste entità economiche si impegnano a rispettare e promuovere tutti gli interessi vitali dei loro ambienti umani, sociali, e naturali. Un tale impegno coinvolge degli obblighi legali verso soci, impiegati, creditori, debitori, comunità e ambienti locali, e verso i principi stabiliti e regolati per la vita in comune, dal livello locale a quello globale. Include perciò anche la creazione di norme interne che inseriscono questo impegno a livello di regole organizzative che lo rispecchiano nelle procedure decisionali dell’azienda e nelle strutture della sua gestione del rischio. L’impegno si traduce, in altre parole, nell’assegnazione di responsabilità legali procedurali per l’inclusione trasparente di tali interessi vitali, non ultimo rappresentati dalla società civile/ i movimenti sociali, in ogni momento del suo ciclo operativo. Queste responsabilità sono dell’impresa in quanto tale (come corpo finanziario indipendente) e definiscono la sostanza della responsabilità di governance da parte del management. La costituzione aziendale deve poi essere affiancata da organi comuni di monitoraggio e controllo con ampie facoltà di accesso.

- L’idea dell’ impresa comune alza, per cosi dire, il tiro combinando i parametri della costituzione dell’impresa con un intervento sulle fondamenta della società capitalista, e cioè sul suo sistema di proprietà a livello aziendale. Misure contro questo sistema sarebbero certamente da prendere su molti livelli con i quali il sistema ha creato delle (nuove) scarsità; penso, per esempio, alla battaglia contro l’estensione del mondo brevettabile. Continuo limitarmi all’impresa in quanto deus ex macchina della crisi contemporanea. L’idea dell’ impresa comune è già apparsa in qualche modello regolativo nella storia recente. Mi riferisco, per esempio, al modello ex-jugoslavo dell’ ‘impresa a proprietà sociale’ che è stata smantellata senza riguardo delle sue capacità economiche e (soprattutto) integrative sociali nel corso dello smantellamento politico e della privatizzazione neoliberista del paese.[111] Il modello si basava su un concetto di proprietà comune – né statale, né privata -  che non era appropriabile da nessun’altro. Non mancava la proprietà, ma un proprietario identificabile; praticamente si trattava della proprietà invisibile (‘ideale’) di ogni cittadino. Il gettito di questa proprietà comune era stato definito politicamente.[112] La proprietà comune veniva poi dato quasi esclusivamente ‘in prestito’ alla gestione da parte degli operai.

Per un adattamento odierno di un tale modello, si potrebbe pensare di attribuire lo status di proprietà comune almeno ai servizi comuni di base (sanità, trasporti, energia, acqua, case, formazione, comunicazione, pensioni) senza escludere del tutto delle attività a proprietà privata in questi campi. Per certe attività invece, come nel caso di fondi pensione che raccolgono denaro comune per investirlo in altre forme aziendali, si potrebbe anche considerare un’ obbligo di tale forma di proprietà. La nuova proprietà comune verrebbe gestito dai corpi (individuali e sociali) coinvolti (operai, sindacati, ONG, pensionati e i loro fondi, ecc.). Questi ‘membri’ potrebbero essere definiti a livello municipale, regionale, ecc. Costituirebbero un’assemblea che vota l’amministrazione mantenendo delle funzioni chiave come la definizione del salario del management e la distribuzione di dividendi/ redditi tra gli i membri. Subentrano poi tutti i parametri summenzionati della costituzione dell’impresa.

A questo punto, e per toglierne qualsiasi muffa otto- e novecentesca, si può intravedere una combinazione tra le due componenti: in quanto il nuovo modello della costituzione dell’impresa non considererebbe più semplicemente i soci (azionisti) come i proprietari dell’impresa, la società per accomandita, ma anche la società a responsabilità limitata (la srl nel senso stretto e la società per azioni) costituite in tal modo si presterebbero ad una combinazione con il concetto dell’impresa comune. Cosi quest’ultima potrebbe trarre beneficio dalle forme più avanzate e flessibili della corporate governance per seguire le mosse d’accumulazione. Sarebbe allora una tale società comune a gestire la proprietà comune nei settori cosi definiti senza ottenerne la proprietà. La potenziale moltitudine dei gestori diventerebbero allora membri o soci (azionisti) di questa impresa comune in chiave all’atto fondatore. Non è possibile discutere qui l’idoneità dei vari modelli della corporate governance moderna e eventuali limiti alla sua flessibilità (auto-gestione, trasferibilità di quote, ecc.). La scelta del modello idoneo seguirà facilmente la decisione politica che porterà alla svolta culturale.

-                Vorrei concludere con qualche commento sugli “avvocati farabutti”[113] o, meglio, sulle ‘pecche’ della loro formazione. In questi tempi di alta flessibilità e costrizione all’ efficienza economica degli studi universitari ci vorrebbe un’ Onda Anomala speciale per gli studi di giurisprudenza. Non a caso la formazione giuridica è stata paragonata, già ai tempi della Repubblica di Weimar, con un’ addestramento di pulci che alla fine non saltano più fuori dalla loro scatola diventando affidabili componenti di un vero e proprio circo.[114] Gli studi di giurisprudenza sono tradizionalmente orientati verso il lato ‘immunizzante’ del diritto e non verso il suo lato ‘sovversivo’.[115] Ma la nuova realtà della liquefazione degli standard scientifici e legali che costringe all’apprendimento permanente (‘a vita’), e la consapevolezza che anche questo addestramento continuo non è più una garanzia di sostenere la concorrenza con gli altri – tale scenario del precariato potrebbe facilmente sfociare nella rivendicazione di ‘più giustizia’, nella riscoperta del Diritto in Movimento e della rispettiva potenza individuale e collettiva, anche da parte dei giovani giuristi. Allora si può comprendere perché la formazione giuridica è stata da sempre uno dei più importanti campi di battaglia per il diritto. Non a caso le rispettive riforme sono soggetto di un dibattito continuo in tanti paesi europei. La crisi diventa cosi il giusto momento di lotta per la re-installazione di uno studio che si occupa (del futuro) delle condizioni psico-sociali, economiche e politiche della produzione delle norme. Solo cosi si può evitare che l’apprendimento continuo e gli standard liquefatti riempiono i cervelli degli giovani giuristi con una marea di casistica che gli oscura la vista sull’origine del diritto nella ‘continua domanda della giustizia’[116]. Si deve prevenire/ combattere la falsa alternativa attuale tra università minimale e ‘cluster d’eccellenza’ che porterà nolente volente ad una riproduzione neo-feudale di elite giuridiche, che sono state tanto combattute per 40 anni a partire dall’ ‘apertura’ del 1968 ricostruendo la loro responsabilità democratica e l’abdicazione dal ruolo della ‘casta’. Per quanto possano darsi un’apparenza ‘critica’, tale istituzioni rappresentano in primo luogo la concessione(!) di trasformazioni limitate e pilotate da parte dei sistemi attuali di governamentalià con lo scopo di ‘governare la crisi continua’.

Per quanto riguarda la formazione dei giovani giuristi, si tratta sempre di una specie di quadratura del cerchio che riflette l’origine paradossale del diritto e trova una situazione corrispondente negli altri campi di studio e ricerca: gli studenti devono, da un lato, imparare dei concetti e metodi dottrinali astratti che si sono affermati per la soluzione di collisioni tra corpi autonomi (individuali e sociali). Dall’altra parte, devono imparare di applicare in continuazione un ‘osservazione del secondo, ecc. ordine’[117], che sospende i standard forniti per il trattamento di norme e fatti e porta ad un’analisi approfondita del rispettivo ambito regolatore. Per sviluppare una definizione idonea del comune in questo campo, o per sviluppare ‘il giudicabile’ (Foucault)[118], i giovani giuristi devono allora essere capaci di leggere le varie teorie sociali e usarle per produrre degli studi di fattibilità e sostenibilità giuridici che sosterranno la loro decisione. In somma, devono comprendere queste ragioni altrui per farsene una loro.[119]

Questo tipo di formazione che getta le basi per una comprensione della rete sociale ‘sottostante’ e per un giudizio sulle conseguenze sociali della decisione giuridica è da sempre stato l’incubo dei (farabutti) giuristi autoritari tradizionali.[120] Nel frattempo è diventato l’incubo dei (farabutti) giuristi che si vedono esecutori della commercializzazione neo-liberista sfrenata. Che ci sia da sempre stata una connessione tra le garanzie istituzionali autoritarie e le politiche (neo-) liberiste sapeva anche Carl Schmitt quando elogiava ‘l’economia sana nello Stato forte”.[121] Accogliamo la chance per buttarli fuori rotta.

* Il testo è stato pubblicato in: M. Blecher, G. Bronzini, R. Ciccarelli, G. Hendry, C. Joerges, a cura di,Governance, Società Civile e Movimenti Sociali, (Roma, EDIESSE, 2009), p. 257 e ss.

L’autore lavora comeSenior Legal Counsel e Team Leader nei progetti della cooperazione legale internazionale e partecipa a delle iniziative di ricerca su governance, società civile e movimenti sociali. E-mail: <[email protected]>


[1] Vedi sull’importanza di Macchiavelli per questa ‘New Age’ al di la del moderno, F.d. Lucchese Tumulti e Indignatio, Conflitto, Diritto e Moltitudine in Macchiavelli e Spinoza (Milan, Edizioni Ghibli, 2004), p. 141.

[2] Vedi R. Wiethölter, Justifications of a Law of Society, in: O. Perez, G. Teubner, a cura di, On Paradoxes and Inconsistencies in Law (Oxford, Hart, 2006), p. 65 e ss.

[3] Cfr. A. Negri, Filosofia del diritto contro sovranità: nuovi eccessi, vecchie frammentazioni, in questo volume.

[4] Cfr. G. Teubner, Costituzionalismo societario: alternative alla teoria costituzionale stato-centrica, in Id., La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma 2005; A. Fischer-Lescano, G. Teubner, Regime Collisions: The Vain Search for Legal Unity in the Fragmentation of Global Law, Michigan Journal of International Law 25, 2004, pp. 999 e ss.

[5] Cfr. G. Teubner, Giustizia nell’era del capitalismo globale?, in questo volume, p.

[6] Vedi id., La matrice anonima. Quando “privati” attori transnazionali violano i diritti dell’uomo, in: Rivista Critica del Diritto Privato, Marzo 2006, pp. 36 e s.

[7] Ibid. p. 19.

[8] Ibid. p. 42.

[9] Cfr. M. Foucault Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli 2005. Id., Nascita della biopolitica, Corso al Collège de France (1978-1979),Milano, Feltrinelli 2005. J. Butler Critica della violenza etica, Feltrinelli: Milano 2006; G. Agamben, Homo Sacer: Potere sovrano e nuda vita, Eindaudi: Torino 1995; M. Hardt, A. Negri Moltitudine – Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano: Rizzoli, 2004; J-F. Lyotard, The Differend: Phrases in Dispute, Manchester University Press, 1988; G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Edipo, Capitalismo e Schizofrenia, Einaudi, Torino, 1978; J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 tomi, 1988.

[10] Cfr. T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi 19?

[11] Cfr. A. Honneth, Verdinglichung, Frankfurt, Suhrkamp, 2005.

[12] Anche se la possibilità di ‘fare la differenza’ ha sempre fatto parte della negazione di strutture esistenti; cfr. D. Innerarity, La Società Invisible, Roma, Meltemi Editore, 2007, p. 194 e ss., e J. Holloway, Che fine a fatto la lotta di classe, Roma, Manifestolibri, 2007, p. 11 e ss., ambedue con riferimenti al ”contro ed oltre” incorporato nella dialettica negativa di Adorno.

[13] Cfr. su questa concatenazione, R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, Luca Sossella Editore, Roma 2008, pp. e ss.

[14] Vedi M. Blecher, Recht in Bewegung – Paradoxontologie, Recht und Soziale Bewegungen, ARSP 2006, pp. 449 e ss.; versione inglese: Law in Movement: Paradoxontology, Law and Social Movements, in J. Dine, A. Fagan, a cura di, Human Rights and Capitalism: a Multidisciplinary Perspective on Globalisation, Elgar: Cheltenham 2006, p. 153-197.

[15] Cfr. G. Günther, Cybernetic Ontology and Transjunctional Operations, in G. Günther, a cura di, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik I, Hamburg, Meiner, 1976, pp. 249 e ss.; id., Life as Poly-Contexturality, pp. 283 e ss.; G. S. Brown, The Laws of Form, Lübeck, Bohmeier, 199); P. Watzlawick, J. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatics of Human Communication: A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, New York, Norton Books, 1967; H. v. Förster, Understanding Systems, Conversations on Epistemology and Ethics, New York, Springer, 2007.

[16] Verba docent, exempla trahunt esprime saggezza antica; ma quando si parla del paradosso e dei suoi effetti, si è facilmente portato fuori rotta da metafore che sembravano tanto utili.

[17] Vedi su questa logica dell’abbandono, G. Agamben, Homo Sacer, Il Potere Sovrano e la Nuda Vita, Einaudi: Torino 1995, p. 122.

[18] Cfr. G. Teubner, Der Umgang mit Rechtsparadoxien: Derrida, Luhmann, Wiethölter, in: C. Joerges, G. Teubner, a cura di, Rechtsverfassungsrecht, Baden Baden: Nomos, 2003, pp. 25 e ss.; versione inglese: O. Perez e G. Teubner, a cura di, On Paradoxes and Self-reference in Law, London: Hart, 2004.

[19] R. Ciccarelli, L’infinita domanda di giustizia nella governamentalità globale, in questo volume; p. 24 e s. (del manoscritto) sostiene che la potentia spinozista non sia “un principio fisico in espansione illimitata, un organicismo di ritorno in uno scenario in cui specie e generi eterogenei sono connessi”, in breve, che non avrebbe voluto creare una nuova metafisica. In principio sono d‘accordo. Ma non possiamo comunque pretendere di ‘conoscere’ quante forme virtuali ci siano rispetto alla nostra vita organizzata e quanti concatenamenti non (ancora) conosciuti ci siano. Non a caso li esperimentiamo come effetti imprevisti dalla nostra organizzazione e del nostro incatenamento programmato. La potentia ci da in ogni momento il seguente quadro: la forma attuale di un corpo singolare  (individuale, sociale, ecc.), le possibilità (virtuali) riconoscibili da e accessibili per questa forma realizzata, le possibilità (virtuali) riconoscibili reciprocamente tra la moltitudine di corpi che vanno oltre la visione singolare permettendole di aumentare la sua potenza. Quale altri possibilità/ virtualità ci siano rispetto a questo quadro, non possiamo sapere – ma forse comprendere? Il massimo che possiamo dire è che l’accesso all’unità paradossale o al concatenamento paradossale delle distinzioni e perciò anche l’accesso ad ‘altri mondi’ o al ‘mondo degli altri’, ad altri valori, si dispiega come relazione tra possibilità virtuali e attualizzate e fa parte del ‘senso’. Non c’è nessuna chiusura a priori né del mondo né del senso come invece vuol farci credere la dottrina luhmanniana. Qui si apre ovviamente tutta la gamma speculativa e religiosa. Io mi fermo qui con la domanda qui bono? rispetto all’aumento della potenza o della conoscenza sublime descritta da Spinoza. La potenza significa allora (almeno) ‘l’altro’ virtuale delle sue stesse realizzazioni attuali che sono inevitabilmente selettive, ma non inevitabilmente ‘negative’. La contingenza, l’apertura verso le altre possibilità che riusciamo comprendere con quel senso di beatitudine, diventa cosi la mole di un possibile cambiamento verso delle scelte migliori: il ‘divenire altro’ deleuziano. Vedi anche R. Braidotti, supra nota 13, pp. 115 e ss.

[20] Deve passare “la soglia dell’ordine“ direbbe probabilmente G. Agamben, supra nota 9, p. 93.

[21] Vedi, rispetto a questo, M. Hardt, A. Negri, Impero -  Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano: Rizzoli, 2002; id., Moltitudine, supra nota 9.

[22] Cfr.  J. Dine, Companies, International Trade and Human Rights, Cambridge: University Press, 2005.

[23] Cfr. R. Wiethölter, Recht-Fertigungen eines Gesellschafts-Rechts, in: C. Joerges, G. Teubner supra nota 18, pp. 13 ess.; versione inglese in O. Perez, G. Teubner supra nota 18. Attenzione però: La governance del diritto comune non si basa sul concetto trascendentale di una ‘mutua reciprocità’ nella quale si riconoscerebbero gli individui a priori, ma sul riconoscimento di una reciproca specificità e della mutua co-dipendenza che il diritto ‘sfrutta’. Vedi R. Braidotti, supra nota 13, p. 183.

[24] Cfr. G. Teubner supra nota 18, pp. 36 e ss.

[25] Vedi rispetto a questo Hardt-Negri, Moltitudine, supra nota 12, e Blecher, supra nota 11, pp. 199 e ss.. Il paradosso delle ’differenze individuali’ sottolinea l’inadeguatezza del termine ’individuo’. La liberta del singolo sta proprio nel suo sviluppo come ’dividuo’ o come un ’sè non-unitario’ caratterizzato da specifiche differenze che possono anche essere in conflitto tra di loro.

[26] Vedi A. Negri, supra nota 3 ; J. Dine, La cattura della corruzione: complessità e cultura aziendale, in questo volume.

[27] Gran parte di questo terzo paragrafo è stata pubblicata sotto il titolo “Mind the Gap!” presso la Rivista Critica del Diritto Privato, 2008. Ringrazio la redazione della Rivista e l’editore della casa editrice Jovene per l’autorizzazione di poter riusare il testo per questo volume.

[28] Cfr. N. Luhmann, Das Recht der Gesellschaft, Frankfurt, Suhrkamp, 1993, p. 225. Versione inglese, Law as a Social System, Oxford Socio-Legal Studies, 2004.

[29] Cfr. M. Foucault, Cos’è l’illuminismo?’, in V. Sorrentino, a cura di, Michel Foucault, Antologia, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 219 e ss.

[30] Preferisco il concetto di ‘contingenza’ a quello di ‘differenza’ per descrivere la ‘liberazione del possibile’. Questo per sottolineare che anche la differenza fatta da una distinzione nuova o diversa rispetto alla precedente è ‘sempre possibile in un altro modo’ o appunto contingente. Si evita cosi l’attribuzione di qualsiasi ‘senso egemonico’ alla nuova differenza che mostra invece di essere stata creata in un processo di conflitto e cooperazione (‘governance’). La creazione della differenza o di nuove distinzioni (‘più giuste’) significa allora contingenza in quanto resistenza a quella precedente. La contingenza diventa auto-riflessiva in questo senso.

[31] Cfr. sulla preoccupazione che la produzione normativa (europea) possa perdere ogni forma di giustificazione, C. Joerges, Integrazione attraverso la de-giuridificazione?Un evento interlocutorio, in questo volume.

[32] Cfr. R. Ciccarelli, supra nota 19.

[33] Confermano ora C. Joerges e F. Rödl, Funktionswandel des Kollisionstrechts II, in: Gralf-Peter Calliess, Andreas Fischer-Lescano, Dan Wielsch, Peer Zumbansen, a cura di, Soziologische Jurisprudenz. Festschrift für Gunther Teubner zum 65. Geburtstag, Berlin: De Gruyter Recht 2009, paragrafo III, pp. 8 e ss del manoscritto.

[34] Cfr. M. Surdi, in questo volume.

[35] Cfr. J. Dine, supra nota 26.

[36] Cfr. G. Bronzini, Governance e lo sviluppo della “flex-security” nel diritto del lavoro, in questo volume.

[37] Cfr. G. Allegri, Società civile e partecipazione democratica nel dopo referendum irlandese, in questo volume. Viene subito a pensare agli esiti infelici dei progetti di ri-costituzionalizzazione dell’UE dovuta non ultimo alla mancanza di integrazione popolare. Cfr. il rispettivo commento di J.L. Nancy al sito

www.information-philosophie.de/philosophie/ Nancy.html

[38] Vorrei sottolineare che questo concetto ‘critico’ della governance è stato ampiamente anticipato dal concetto della ”proceduralizzazione del diritto” (“diritto politico”) introdotto da Rudolf Wiethölter a partire dal 1982. Il concetto auspica la costruzione sociale attraverso la creazione di adeguati “standard, fora e procedure” – creazione della quale il diritto deve prendersi cura. Vedi R. Wiethölter, Materialization and Proceduralization in Modern Law, in: G. Teubner (ed.), Dilemmas of Law in the Welfare State, de Gruyter: Berlin, New York 1986; e: Proceduralization of the Category of Law, in: C. Joerges, S. Trubek, Critical Legal Thought: An American-German Debate, Nomos: Baden Baden 1989.

[39] Il concetto è stato sviluppato per la trasformazione di sistemi familiari ‘inceppati’ da P. Watzlawick e altri. Vedi id., Guardarsi dentro rende ciechi, nell’omonimo libro curato da G. Nardone, W. A. Ray (Milano, Ponte delle Grazie, 2007).

[40] Cosi la suggestione benevole di G. Frankenberg in Nazionale, sovranazionale e globale: ambivalenze nella pratica della società civile, in questo volume.

[41] Che può comunque essere inteso come un ‘no produttivo’ di resistenza, cfr. A.M. Brighenti, Resistance as Transformation, in L. Cheliotis, a cura di, The Banality of Good: Roots, Rites and Sites of Resistance. Palgrave Macmillan: Basingstoke, 2008. Questo vale anche per ‘l’inoperosità’ come prassi ‘altra’ proposta da G. Agamben. Cfr. S. Catucci, Una rinnovata consistenza del nostro agire, Elogio dell’inoperosità, in Il Manifesto del 14.02.2009.

[42] Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Der neue Geist des Kapitalismus, UVK, Konstanz, 2003. Originale francese: Le nouvel esprit du capitalisme, Editions Minuit, Paris, 1999.

[43] La battuta si riferisce ad uno slogan dei movimenti spontaneisti tedeschi dell’inizio dei anni 80. L’originale in tedesco si legge come segue: “Sie wollen nur unser Bestes, aber sie bekommen es nicht!” L’attualità ed incisività di questa ‘condotta’(!) si presenta in questo inverno 2010-2011 nel dibattito intorno al ruolo dei movimenti per le lotte sindacali. Risponde ai continui tentativi da parte dell’establishment istituzionale di turno di sussumersi (delle parti) dei movimenti.

[44] Cfr. supra nota 9. Sull’effetto attuale degli studi sulla governmentalità iniziati da Foucault, R. Ciccarelli, supra nota 19.

[45] Cosi la famosa definizione della moltitudine dei movimenti sociali di M. Hardt, A. Negri, supra nota 21, p. 11.

[46] Cfr. su questo modello in modo pregnante, U. Bröckling, Das unternehmerische Selbst – Soziologie einer Subjektivierungsform, Suhrkamp: Frankfurt 2007.

[47] Avvicinandosi sempre di più al riconoscimento di una manque comune dei sistemi funzionali, anche G. Teubner parla ora di un loro intrinseco bisogno di “auto-sovversione”, cfr. id, Selbstsubversive Gerechtigkeit: Kontingenz- oder Transzendenzformel des Rechts?, in G. Teubner, a cura di, Nach Jacques Derrida und Niklas Luhmann: Zur (Un-) Möglichkeit einer Gesellschaftstheorie der Gerechtigkeit, supplemento speciale del primo numero 2008 della rivista Zeitschrift für Rechtssoziologie, Lucius & Lucius, Stuttgart 2008, p. 9 e ss. Versione inglese, Self-subversive Justice: Contingency or Transcendence Formula of Law?, Modern Law Review 2008.

[48] Cfr. G. Teubner, supra nota 18.

[49] Cfr. anche R. Ciccarelli, supra nota 19, pp. 19 e ss. (del manoscritto).

[50] Il concetto descrittivo e normativo di ‘sostenibilità’, intesa nel senso spinoziano di ‘cosa può un corpo’ (individuale, sociale, animale, vegetale, la biosfera, ecc.), sembra un valido strumento per definire ‘lo stato del comune’ e delle singolarità coinvolte e per indicare necessari punti di svolta. Cfr. per una prima bozza di un tale approccio, oltre l’applicazione funzionale del termine, R. Braidotti, supra nota 13, pp. 235 e ss.

[51] Cfr. G. Teubner, supra nota 47.

[52] Cfr. sugli effetti dello smantellamento delle forme trascendentali nel diritto e altrove, R. Ciccarelli, supra nota 19.

[53] Cfr. C. Menke, Der Abgrund des Subjekts: Soziale Bedingungen der Aporien der Gerechtigkeit, in G. Teubner, supra nota 47, pp. 81 e ss. Mi piace chiamare questo auto-sfacimento intrinseco delle strutture con un termine usato in modo critico contro la prima ondata del consumismo americano in campo automobilistica che solo oggi, nel momento della sua crisi terminale, dispiega il suo vero senso ironico: ‘obsolescenza incorporata’ (‘built-in obsolescence’).

[54] Cfr. R. Ciccarelli Potenza e beatitudine. Il diritto nel pensiero di Baruch Spinoza (Roma, Carocci, 2003), pp. 207 e ss.

[55] Vedi supra nota 19.

[56] Cfr. G. Frankenberg, supra nota 40.

[57] Si badi bene: “La moltitudine non ha mai, almeno in linea di principio, alcun obbligo a priori nei confronti del potere; al contrario, la moltitudine ha fondamentalmente il diritto di disobbedire e il diritto alla differenza. La costituzione della moltitudine è fondata sulla perenne e legittima possibilità di disobbedire. Per la moltitudine, l’obbligo emerge solo con il processo decisionale, come risultato della sua attiva volontà politica: la necessità politica dura finché perdura quella volontà politica.” (Hardt-Negri, supra nota 9, p. 392). E’ però la stessa auto-ricognizione e rivendicazione di essere “l’alternativa vivente che cresce all’interno dell’Impero” (cfr. supra nota 26), cioè di essere i fautori della potentia (non: del potere) che lega la moltitudine in modo etico-normativo a quella comune ‘liberazione delle possibilità’ e la costringe di realizzare la sua ‘volontà’ attraverso delle scelte organizzative e programmatiche che riconoscono la loro sostenibilità (‘necessità’) e contingenza. Altrimenti la ‘diversità’ dal potere assediato viene facilmente mancare. Cfr. su questo difficile atteggiamento non-identitario’ ora M. Hardt, A. Negri, Comune, Oltre il privato e il pubblico (Milano, Rizzoli, 2010) , pp. 323 e ss.

[58] Libertà che non è certo solo “libertinage”; cfr. la battuta ambigua di A. Negri, supra nota 3, p. , contro ‘l’inoperosità’, cioè la sottrazione all’operare funzionalmente, proposta come forma di resistenza da G. Agamben (cfr. id. Nudità, Nottetempo, Roma 2009, pp. 67 e ss.). Si deve evitare un qualsiasi odore di neo-trascendentalismo rispetto ad una vita/ una società intese (pur alternativamente) come ‘operose’!

[59] Cfr. C. Lefort, Fortdauer des Theologisch-Politischen?, Wien 1999, p. 93. Sul legame tra questa leggibilità e la legittimità cfr. supra nota 17.

[60] P. Legendre, citato da S. Häußler, Psychoanalytische Rechtstheorien, in S. Buckel, R. Christensen, A. Fischer-Lescano, Neue Theorien des Rechts, Lucius & Lucius, Stuttgart 2009, pp. 307 e ss. (p. 317).

[61] Cfr. Menke, supra nota 53, p. 38.

[62]Vedi R. Wiethölter, supra nota 23.

[63] Ringrazio C. Joerges per avermi fornito queste 2 citazioni. La traduzione è mia.

[64] Cfr. la presentazione di C. Marazzi durante l’incontro di UNINOMADE del febbraio 2009, ascoltabile sul sito www.uniriot.net; vedi anche U. Bröckling, supra nota 52, e L. Boltanski, E. Chiapello, supra nota 49.

[65] Vedi R. Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri: Roma 1997.

[66] R. Ciccarelli, Il mondo infranto della vita messa al lavoro, in Il Manifesto del 23 febbraio 2009. Per quanto riguarda il ‘libertinaggio’ mi riferisco ancora a supra,  nota 58.

[67] Cfr. la presentazione di A. Negri durante l’incontro di UNINOMADE del febbraio 2009, ascoltabile sul sito www.uniriot.net.

[68] Ricordo la famosa frase di Luhmann: “Un procedimento non è fatto per terminare un problema attraverso la sua soluzione, è la stessa terminazione del procedimento a risolvere il problema.” (“Verfahren sind nicht dazu da, Probleme durch Lösung zu beenden, sondern durch Beendigung zu lösen”) Cfr. Id., Legitimation durch Verfahren, a cura di A. Febbrajo, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffré, Milano 1995.

[69] Vedi già S. Sassen, The new new deal, pubblicato sul sito Open Democracy News Analysis il 23 settembre del 2008 http://www.opendemocracy.net. Id., Übermäßige Verschuldung stoppen, in: Frankfurter Rundschau, sezione economica, del 6 marzo 2009. Stranamente, le proposte di Sassen puntano ancora su un sistema di ‘crescita’, punto di partenza e fulcro dello stesso capitalismo selvatico. Cfr. invece Marazzi supra nota 2.

[70] Cfr. G. Rossi, nell’intervista di B. Perini su ‘Il Grande Crac. Le moderne belve? I banchieri!’, in: Il Manifesto del 13 marzo 2009.

[71] Qui si aggrappa la maggior parte delle proposte in atto; vedi Sassen, supra nota 7, e Rossi, supra nota 8.

[72] Vedi sull’attualità delle proposte sul basic income, le comunicazioni del BIN (Basic Income Network Italy),

[73] Cfr. G. Bronzini, supra nota 36.

[74] E’ saputo che la crisi del ’29 è stato superato in pieno solamente dalla ‘produttività’ e dagli ‘aggiustamenti’ della seconda guerra mondiale. Cfr. G. Rossi, supra nota 8.

[75] Vedi paragrafi I e II, pp. e ss.

[76] Cfr. anche la presentazione di A. Fumagalli, durante l’incontro di UNINOMADE del febbraio 2009, ascoltabile sul sito www.uniriot.net. Vedi ora anche G. Teubner, Ein konstitutioneller Moment? Die Logik des ‚hit the bottom’ in: K. Günther, S. Kadelbach, a cura di, Recht ohne Staat ,2010; versione inglese: A Constitutional Moment ? The Logics of ‘Hit the Bottom’, in: P. Kjaer, G. Teubner (eds.) After the Catastrophe: Economy, Law and Politics in Times of Crisis, 2010.

[77] Vedi P. Watzlawick, J. Beavin, D.D. Jackson, supra nota 15.

[78] Cfr. B. Obama nella trasmissione Tonight del 19 marzo 2009: “Il piccolo sporco segreto sta nel fatto che tutto quello che ha portato alla crisi è stato completamente legale.”

[79] Cfr. G. Deleuze, Foucault, Continuum Books, London/New York 2006, p. 19.

[80] Cfr. G. Teubner, Il trilemma regolatore, in: Quaderni Fiorentini 1984.

[81] Cfr. supra pp.  e ss.

[82] Cfr. R. Ciccarelli, L’infinita domanda di giustizia nella governamentalità globale, in questo volume; p. 24 e s. (del manoscritto). C. Joerges, vede nel diritto europeo, nella comitologia e nella normazione tecnica europea già delle forme che vanno nella direzione di una sostanziale governance comune sopranazionale nonostante la selettività dei membri coinvolti che lui giudica inevitabile. Cfr. Id., Integrazione attraverso la de-giuridificazione?Un evento interlocutorio, in questo volume.

[83] Cfr. la vecchia visione di M. Hardt, A. Negri, supra nota 9. E’ da ricordarsi però che la Magna Carta storica fu un accordo tra re e baroni che non considerava affatto la sorte della ‘gente comune’!?!

[84] Vedi R. Ciccarelli, Tre mondi per una regia multilivello. Risiko imperiale, Intervista a Parag Khanna, Il Manifesto del 14 Marzo 2009.

[85] Cfr. supra nota 83,  p. 374.

[86] Cfr. i seguenti casi della Corte che possono essere scaricati dal sito http://www.curia.eu.int: C-112/05 (Commissione/ Repubblica Federale Tedesca); C-463/04 (Federconsumatori/ Comune di Milano); C-282/04 (Commissione/ Paesi Bassi); C-98/01 (Commissione/ Regno Unito); C-463/00 (Commissione/ Regno di Spagna); C-503/99 (Commissione/ Regno del Belgio); C-483/99 (Commissione/ Repubblica Francese); C-367/98 (Commissione/ Repubblica di Portogallo.

[87] Una nota al margine: mentre le golden shares erano diventato un tabù a livello inter-europeo, la Commissione considerava già un anno fa la loro introduzione – cioè quote cospicue tenute da enti pubblici degli stati membri – per proteggere importanti imprese europee contro l’influenza di imprese extra-europee. La ‘repubblica della proprietà’ (Hardt-Negri) della  ‘fortezza Europa’ è subito pronto di usare anche i snobbati vecchi strumenti dello stato regolatore se precisi interessi lo richiedono. Cfr. La relazione dell’ (ora ex-) Commissario EU per il commercio P. Mandelson ‘Europe’s openness and the politics of globalization’, Alcuin Lecture a Cambridge l’8 febbraio del 2008. Si trova sul sito dell’ UE http://europa.eu.int/

[88] Cfr. per questa sezione, C. Joerges, F. Rödl, supra nota 41.

[89] Cfr. caso C-346/06, Rüffert ./. Regione  Bassa Sassonia, sentenza del 3 aprile 2008.

[90] Articolo 137V del Trattato CE riserva il regolamento dei seguenti campi agli stati membri: “paga, il diritto di associazione, il diritto allo sciopero, e il diritto di imporre delle espulsioni temporanee.”

[91] Sentenza C-438/05, Viking Line Abp OU Viking Line Eesti v The International Transport Workers’ Federation, The Finnish Seamen’s Union. Sentenza C-341/05, Laval un Partneri Ltd v. Svenska Byggnadsarbetareforbundet, Svenska Byggnadsarbetareforbundet, Avdelning 1, Svenska Elektrikerforbundet. Vedi la discussione dei due casi in C. Joerges,F. Rödl, Informal Politics, Formalized Law and the ‘Social Deficit’ of European Integration: Reflections after the Judgements of the ECJ in Viking and Laval, in: European Law Journal, Vol. 15, No. 1, January 2009, pp. 155 e ss.

[92] Vedi G. Allegri, supra nota 37; G. Bronzini, supra nota 36, e la rassegna giurisprudenziale dei tribunali europei, internazionali e nazionali nel campo dei diritti umani sul sito: www.europeanrights.eu

[93] Cfr. l’esempio della famosa sentenza ‘Cassis’, C. 120/78 del 20.0 2. 1979, Rewe/Bundesmonopolverwaltung für Branntwein,

[94] Vedi supra nota 43. Sulla necessità e le chance di un rilancio del movimento europeista, vedi ora P. Krugman, The Road to Economic Crisis is Paved With Euros. Can Europe Be Saved?,  in NY Times, January 12, 2011.

[95] Cfr. R. Kurz, supra nota 65.

[96] Tra Anschluss (annessione – con riferimento all’annessione dell’Austria ed di altre regioni ‘tedesche’ da parte di Hitler) o Vertrag (contratto/ trattato) si svolgeva il dibattito intorno l’unificazione tedesca.

[97] Cfr. M. Serres, Der Parasit, Suhrkamp, Frankfurt 2008.

[98] Nella teoria dei sistemi, si tratta di un atteggiamento parassitario reciproco tra sistemi; ma l’asimmetria a favore dell’economia/ impresa è stato evidente negli ultimi 20 anni.

[99] Vedi J. Dine, supra nota 22; Id., The Governance of Corporate Groups, Cambridge, University Press, 2000; Id., Using companies to oppress the poor, in J. Dine, A Fagan, a cura di, Human Rights and Capitalism, Cheltenam: Elgar, 2006. Id., Rigged risks: why commercial law kills, Lectio Magistralis al Queen Mary College dell’Università di Londra il 7 maggio del 2008 (in fase di pubblicazione)

[100] Cfr. G. Teubner, Corporate Codes multinationaler Unternehmen: Unternehmensverfassung jenseits von Corporate Governance und gesetzlicher Mitbestimmung, in A. Höland, C. Hohmann-Dennhardt, M. Schmidt, A. Seifert, a cura di, Arbeitnehmermitwirkung in einer sich globalisierenden Arbeitswelt: Liber Amicorum Manfred Weiss, Berliner Wissenschafts-Verlag, Berlin 2005, pp. 109 e ss.; versione inglese: The corporate codes of multinationals: company constitutions beyond corporate governance and co-determination, in:

[101] Vedi l’intervista ad un broker della City in The Guardian 2008, riportato dall’Internazionale 2008, No.

[102] Vedi supra nota 78.

[103] Cfr. G. Rossi, Il Mercato d’Azzardo, Milano: Adelphi 2008;

[104] Cfr. S. Sassen, supra nota 7; M. Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, Éd. Clément Jugla 1999. La crisi mondiale dei nostri giorni. Per profonde riforme delle istituzioni finanziarie e monetarie, in:

[105] Nonostante la bravura del parasite stia proprio nella sua capacità di anticipare le mosse regolative e di prepararsi rispettivamente, per esempio facendo dell’impegno comune puramente una campagna pubblicitaria continua.

[106] Cfr. supra note 63 e 76.

[107] Cfr. G. Teubner, supra nota 4.

[108] Vedi C. Joerges, supra nota 88.

[109] Cosi la teoria della ‘concessione duale’ che si oppone alla classica teoria contrattualistica che privilegia il ruolo dei fondatori e dei soci in ogni fase e ambito dell’impresa. Cfr. J. Dine, The Governance of Corporate Groups, supra nota 103, p. 27.

[110] Cfr. J. Dine, M. Koutsias, M. Blecher, Company Law in the New Europe, Elgar: Cheltenham 2006, Chapter IV, pp. 120 e ss.

[111] Cfr. K. Medjad, Workers’ Control as a source of Customary Ownership Rights: Evidence from the Privatization in the Former Yugoslav Republics. Relazione all’undicesima conferenza dell’Associazione Internazionale per l’Economia della Partecipazione, Università Cattolica di Bruxelles, 4-6 luglio 2002. Lo smantellamento si doveva comunque alquanto al passaggio dal fordismo al post-fordismo e alla finanziarizzazione dell’impresa.

[112] La Costituzione Jugoslava del 1974 includeva, per esempio, i mezzi di produzione e altri mezzi del lavoro comune; la produzione dei redditi risultanti dal lavoro comune; i mezzi per compiere bisogni comuni e sociali generali; le risorse naturali e i beni per l’uso pubblico.

[113] Cfr. A. Negri, supra nota 67.

[114] La metafora del circo delle pulci denunciava una formazione giuridica disegnata per trasformare lo sguardo dei giovani giuristi sul loro ambiente sociale per adeguarlo sempre di più alla visione dell’amministrazione statale che era ancora impregnata dalla tradizione anti-democratica. Cosi facendo si garantiva che questa tradizione fosse lanciato da ministeri e tribunali contro la ricostruzione democratica della società e, in particolare, contro la legislazione parlamentare ‘proletarizzata’.

[115] Vedi sopra paragrafo III, p.

[116] Cfr. ancora R. Ciccarelli, supra nota 19.

[117] Cfr. H. v. Förster, supra nota 15.

[118] Cfr. R. Ciccarelli, sulle orme di Foucault, supra nota 116.

[119] Dovrebbero tener conto del fatto che tutte le teorie sociali hanno un loro ‘punto cieco’, la loro selettività costruttiva, che non può captare i fenomeni personali e sociali nel loro complesso perché non c’è un punto privilegiato dal quale si possa osservare tutto ‘oggettivamente’. Lo stesso paradosso sostituisce questo punto di vista. Nonostante ciò, la decisione tra queste teorie  non comporta la caduta in un relativismo bieco. Né c’è rivendicazione di una super-teoria. Da un lato, c’è il riconoscimento di uno ‘spazio vuoto’ lasciato dalla costruzione teorica che il diritto usa in continuazione per creare un ‘plusvalore normativo’ derivante da una continua reciproca irritazione e da un confronto continuo delle teorie sociali rispetto al contesto sociale rilevante e ai problemi connessi. Così facendo, il diritto crea un’altra (la sua propria) teoria sociale che riflette la sua funzione sociale normativa di ‘produrre giustizia’. Dall’altra parte, la stessa teoria del diritto contiene un ‘pre-giudizio’ intrinseco rispetto alla sua affinità normativa con quelle teorie che implicano la trasformazione permanente dei poteri stabiliti precedentemente. Ricordiamo che il bisogno di una concreta ‘ricombinazione’ contestuale delle teorie deriva dal compito normativo del diritto di produrre in continuazione degli standard che compensino la restrizione di possibilità delle autonomie coinvolte. Il diritto non obbedisce allora al disegno di quelle teorie sociali, ma sviluppa il suo proprio disegno.

[120] Ricordo la famosa battutta di E. Forsthoff, cresciuto professionalmente nel nazismo tedesco e diventato poi uno dei protagonisti del diritto amministrativo tedesco del secondo dopo guerra: “giuristi devono avere i loro metodi ma non averli a disposizione.“

[121] Cfr. C. Schmitt, Gesunde Wirtschaft im starken Staat, Schriften des Langnam-Vereins 1932.

 

 

 

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